“I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default, che può diventare una profezia che si autoavvera”.

“Il Mes è un’istituzione molto utile che deve continuare ad avere il pieno sostegno dell’Italia. Le proposte di riforma che sono state formulate dall’Eurogruppo dello scorso giugno presentano aspetti positivi, ma anche alcune criticità per un paese come l’Italia. In particolare, preoccupa l’idea che, in certe circostanze, la ristrutturazione del debito pubblico possa diventare una precondizione per avere accesso alle risorse del Mes”.

La prima dichiarazione è di Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia: parole pronunciate nel corso del seminario congiunto Omfif-Banca d’Italia il 15 novembre 2019. La seconda è un’affermazione tratta dall’audizione che Giampaolo Galli, docente di economia politica e membro dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Roma, ha tenuto lo scorso 6 novembre davanti alle Commissioni riunite V e XIV della Camera.

Bisogna partire da qui per cercare di capire il caso Mes, dalle parole di due tecnici di alto profilo che non possono certo essere tacciati di anti-europeismo. Perché i rilievi di Visco e di Galli, che pure hanno fatto da miccia all’infuocato dibattito politico che sta divampando da un paio di settimane, sono stati presto accantonati, lasciando il campo alle invettive, ai sospetti, alle accuse, alle prese di posizione interessate.

Prima di tutto un passo indietro. Come ricordato proprio da Galli, “Dal comunicato del presidente Mario Centeno al termine della riunione dell’Eurogruppo del 7 novembre scorso si evince che il negoziato sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità è ormai in fase molto avanzata. Il testo del Trattato, così come emendato a giugno, non è più in discussione ed entro dicembre dovrebbero essere approvati dai governi anche tutti gli allegati (per esempio, il memorandum sui rapporti con la Commissione europea). A gennaio dovrebbe quindi iniziare il processo di ratifica da parte dei parlamenti nazionali”.

E qui è importante fare subito una precisazione: “Nel giugno scorso – sono sempre parole di Galli –, quando fu reso noto il testo del nuovo Trattato, in Italia nessun partito politico sollevò obiezioni rispetto al merito della riforma; i sovranisti tuttavia continuavano a pretendere l’abolizione del Mes (il corsivo è nostro, ndr). La richiesta, oltre a essere avulsa dal dibattito europeo, non teneva conto del fatto che il Mes è un’istituzione molto utile perché svolge la funzione, assolutamente essenziale, di prestatore di ultima istanza nei confronti degli Stati dell’Eurozona. Ha infatti un capitale di ben 704 miliardi di euro, di cui 80 versati, (…) ed è la porta di accesso, ancorché non automatica, alle Omt (outright monetary transactions) della Banca centrale europea, il cui ammontare è teoricamente illimitato”.

Quindi, punto primo: il Mes – aspetto positivo – “rappresenta oggettivamente una manifestazione di solidarietà dei paesi più solidi dell’Eurozona nei confronti dei paesi più esposti alle crisi”.

Detto questo, però, qui cominciano le preoccupazioni italiane, quelle che Visco ha definito “enorme rischio”. Per capire quali possono essere le criticità del Mes, il cui obiettivo è cercare di porre rimedio ai problemi, con annesse speculazioni dei mercati, indotti da debiti pubblici elevati, bisogna tenere conto – lo riconosce lo stesso governatore – che “La costruzione europea è a un punto morto, benché ce ne sia una forte necessità nelle aree chiave, dove l’Unione è più brava a proibire che a costruire”. Infatti “sette anni dopo (il picco della crisi), sono stati compiuti progressi solo parziali. L’unione bancaria è incompleta e non priva di difetti, le regole di base per l’unione di capitali sono ancora in fase di determinazione e l’unione fiscale è stata rinviata a una data futura non meglio specificata”. In questo contesto, è l’invito di Visco, il meccanismo del Mes “va gestito con grande prudenza”.

Perché? Torniamo alle parole di Galli. Pur riconoscendo che “nella nuova versione del Trattato non è stata inserita l’ipotesi preferita dai rigoristi del Nord Europa”, cioè la ristrutturazione automatica e preventiva del debito pubblico dei Paesi che si rivolgono al Mes, “la riforma prevede comunque che lo Stato che chiede l’intervento del Mes sia sottoposto all’analisi di sostenibilità del debito e, solo in caso di esito negativo, sia tenuto a ristrutturare”. Siccome però il diavolo si nasconde nei dettagli, ecco dove può cascare l’asino, ecco dove si annida “una possibile criticità per un paese ad alto debito come l’Italia”: questa analisi di sostenibilità è “un esercizio che non può non contenere ampi margini di discrezionalità”.

Ricapitolando: la ristrutturazione non è automatica, ma dipende dall’esito delle valutazioni sulla sostenibilità, ma, se la valutazione è negativa, la ristrutturazione deve essere preventiva, ossia deve precedere l’erogazione degli aiuti perché il Mes li garantisce “solo a paesi i cui debiti sono giudicati sostenibili”. Da questo assunto, discendono i principali “timori” relativi alla riforma: non solo al Mes, “che è un’istituzione intergovernativa esterna al perimetro dell’Unione Europea e non sottoposta al vaglio del Parlamento europeo, vengono attribuiti poteri molto ampi che si sovrappongono a quelli della Commissione sull’intera materia dell’analisi e valutazione della situazione economica e finanziaria di tutti i paesi dell’Eurozona, non solo di quelli sottoposti a un programma di aggiustamento”, ma anche si stabilisce, da un lato, che “il Mes avrà il coltello dalla parte del manico”, perché, “a differenza di tutte le istituzioni comunitarie, non avrà il mandato di operare nel comune interesse dell’Unione” e, dall’altro, che il Mes “presta assistenza solo a paesi con debito sostenibile – il che significa che chi ha un debito giudicato insostenibile deve preventivamente ristrutturare”.

È questa pre-condizionalità la “pistola alla tempia” puntata sull’Italia. Infatti, ricorda Galli, i Paesi Ue, “molto preoccupati da una crisi del debito italiano” e convinti che “le regole europee non siano riuscite a disciplinare paesi come l’Italia”, hanno approvato questa riforma con la ferma intenzione di far sì che “i paesi vengano salvati – questa è la funzione del Mes – ma che una parte del costo del salvataggio debba essere a carico dei creditori”. La finalità, dunque, è indurre l’Italia “ad assumere le iniziative che sono necessarie per evitare di perdere l’accesso al mercato e dunque essere costretta a rivolgersi all’assistenza della comunità internazionale”. Ma c’è un rischio, avverte Galli: “che i meccanismi di mercato funzionino male e, attraverso aspettative che si auto-realizzano, finiscano per trasformare temporanee crisi di liquidità in insolvenza”.

Dunque, per far sì che il Mes sia realmente utile come si vorrebbe, Galli individua i “punti del testo che sarebbe utile cambiare”: “occorre rafforzare il ruolo della Commissione rispetto al Mes” e bisogna “sottolineare con forza che la ristrutturazione del debito pubblico non può essere decisa sulla base di valutazioni meccaniche”, ma “va valutata con grande attenzione, con il pieno coinvolgimento delle autorità nazionali, perché rischia di aggravare la condizione economica e sociale di una nazione, nonché di avere effetti di contagio molto negativi sull’intera eurozona”.

Resta, infine, una sconfortante e inquietante considerazione finale: come ammette lo stesso Galli, “Le organizzazioni internazionali e i mercati hanno smesso di credere alle promesse delle autorità (italiane) di intervenire, in futuro, per risolvere il problema”. Si preparano, dunque, a prendere in mano il pallino? E l’Italia va incontro a “una sorta di bail-in applicato a milioni di persone che hanno dato fiducia allo Stato comprando titoli del debito pubblico”?