Sono trascorsi ormai undici anni dalla morte di don Giacomo Tantardini, avvenuta a Roma il 19 aprile 2012, e il ricordo di questo grande sacerdote lombardo, trasferitosi a Roma nei primi anni 70 del secolo passato, è più vivo che mai in coloro che lo hanno conosciuto. Responsabile della pastorale dell’Università di Roma Tor Vergata negli infuocati anni 70-80, era la vera mente ecclesiale e teologica del settimanale Il Sabato, dal 1985 al 1993, e del mensile internazionale sulla Chiesa nel mondo 30 Giorni negli anni 1990-2012.
Don Giacomo, ancorché schivo e restio a divenire un personaggio pubblico, è stato certamente una figura di primo piano nella Chiesa e nel cattolicesimo italiano. In occasione del decennale della scomparsa bene lo ha ricordato Lucio Brunelli nelle pagine de l’Osservatore Romano (“Una storia semplice”, 19 apr. 2022). Rievocando la sua storia personale, in particolare il periodo segnato dal vento del ’68 che trascinava migliaia di giovani lontano dalla Chiesa, Brunelli descrive il suo incontro personale con questo sacerdote, eccentrico, geniale, appassionato, semplice come un bambino allorché parlava della fede, capace come pochi di dimostrare l’affetto di Cristo.
“Merito della fede di sua mamma, merito dell’incontro con don Giussani, l’iniziatore di Comunione e liberazione, di cui fu figlio fedele e amatissimo. Merito della Grazia di Dio. Ce lo comunicava, questo amore, non moltiplicando le parole ma con i suoi sguardi, la sua ironia, l’affetto che aveva per ognuno di noi, così come eravamo. Ed allora, negli anni 70, fra mille ingenuità, contaminazioni ideologiche, militanze esagerate e botte prese a destra e a manca, poteva accadere di trovare don Giacomo con un gruppo di studenti universitari in preghiera, la domenica pomeriggio, nel Convento delle Piccole Sorelle di Gesù nel bosco di oleandri alle Tre Fontane o nel convento delle Suore dell’Assunzione affacciato sul lago di Genzano. Era una meraviglia, pregare e vederlo pregare, in quei luoghi di silenzio e di pace. Una grazia, anche assistere al fenomeno incredibile di decine, poi centinaia, infine migliaia di persone che seguendo l’esperienza di don Giacomo scoprivano ex novo la fede cristiana o vi tornavano in modo più consapevole e interessante per la loro vita. Proprio in un tempo in cui le chiese si spopolavano di giovani. Quante vite salvate, quanti legami di amicizia e vera fraternità si sono stabiliti grazie a questo fiume in piena dell’azione del buon Dio. Legami indelebili”.
Tra questi legami indelebili Brunelli ha ricordato l’amicizia che ha legato il sacerdote di Barzio, negli ultimi anni della sua vita, con l’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio. Don Giacomo costituiva, infatti, uno delle poche persone che Bergoglio frequentava durante i suoi brevi soggiorni romani. Alla giornalista Franca Giansoldati il Papa confesserà, nel luglio 2014: “Lo sa che io Roma non la conosco? Pensi che la Cappella Sistina l’ho vista per la prima volta quando ho preso parte al conclave che elesse Benedetto XVI. Non sono nemmeno mai stato ai musei. Il fatto è che da cardinale non venivo spesso. Conosco Santa Maria Maggiore perché ci andavo sempre. E poi San Lorenzo fuori le Mura dove sono andato per delle cresime quando c’era don Giacomo Tantardini”.
Il rapporto con don Giacomo matura in un contesto che proveniva da lontano, dal 2002, quando 30 Giorni pone la sua attenzione sul cardinale di Buenos Aires ospitando suoi articoli ed interviste. Interviste poi raccolte da Gianni Valente nel volume Francesco. Un Papa dalla fine del mondo (Emi, 2013). Certamente 30 Giorni ha contribuito, con le sue edizioni plurilingue, a far conoscere Bergoglio fuori dal perimetro dell’America Latina. Ma da dove nasce l’interesse della rivista per il porporato argentino? È la domanda che si pone Giuseppe Butturini, il professore di storia del cristianesimo all’Università di Padova che tante volte ha introdotto le lezioni di don Giacomo sulla storia della Chiesa e su sant’Agostino tenute presso quella università.
“La domanda, la ricerca non sono facili. Ma almeno tre segni ci potrebbero permettere di pensare ad un ruolo profetico svolto dalla rivista 30 Giorni e soprattutto da chi la animava. Se tutti sanno che il direttore responsabile, almeno a partire dai primi anni 90, era Giulio Andreotti, pochi sanno che l’animatore era don Giacomo Tantardini e che quindi nella sua figura e nella sua storia si nascondono la storia e la fisionomia della rivista e, di riflesso, il presagio che oggi sta lentamente ma profondamente compiendosi nella Chiesa, anche se con non poche resistenze e difficoltà, ma irresistibilmente. Tre dunque i segni. 30 Giorni era l’unica rivista o quasi che in Italia dava voce al card. Bergoglio: sono sette i suoi interventi e vanno dal 2007 al 2012. Mettendoli a confronto con il suo magistero pontificale e con alcune sue scelte non ci sono differenze; accenti e scelte coincidono. Resta emblematica l’intervista rilasciata nel 2007 su quanto l’arcivescovo di Buenos Aires avrebbe voluto dire al Concistoro, cui non poté poi partecipare per una grave allergia. Due parole la riassumono: “misericordia e coraggio missionario”. Come non si può dimenticare il modello di prete che Bergoglio presentava: don Pepe. Altrettanto chiaro il ruolo riservato dalla rivista agli interventi e alle interviste rilasciate da alcuni vescovi dell’America Latina. Quasi la percezione che il domani di tutta la Chiesa passasse attraverso la vita e le scelte pastorali delle chiese nel continente sud–americano. Mediamente si può dire che a partire dal 2007 nella maggioranza dei numeri della rivista appaiono riferimenti alle chiese dell’America Latina o abbondano interviste rilasciate da vescovi del medesimo continente. Possono essere emblematiche le pagine della rivista sulla Chiesa di Cuba e ancor più il titolo che riassume le risposte date dal card. Hummes: “L’imperialismo del denaro”. Il riferimento al 2007 resta significativo perché in quell’anno si svolge ad Aparecida la grande conferenza episcopale di tutta l’America Latina: un’assemblea nella quale la presenza e la regia del card. Bergoglio furono decisivi, soprattutto nella stesura del documento finale; pagine che possono essere una chiave di lettura del pontificato di papa Francesco. Ancor più significativo il rapporto tra l’arcivescovo di Buenos Aires e don Giacomo. Un rapporto che si manifesta in modo particolare nel 2012 nella chiesa di san Lorenzo a Roma”. Butturini accenna qui al rapporto personale tra don Giacomo e il cardinale. Un rapporto, va detto, preparato non solo dalla conoscenza indiretta attraverso 30 Giorni ma anche da una recensione del volume di don Giacomo Il cuore e la grazia in sant’Agostino (Città Nuova, 2006) inviato da Lucio Brunelli al cardinale.
“A partire dal 2006 tenevo con molta semplicità una corrispondenza via mail con il cardinale di Buenos Aires. Lo avevo conosciuto l’anno precedente e ne rimasi subito folgorato. Con lui condividevo i testi di alcuni miei articoli per il settimanale Vita o link a servizi che realizzavo per la tv (all’epoca lavoravo al Tg2). Il 25 gennaio 2007 gli inviai una mia recensione al libro di don Giacomo su sant’Agostino Il cuore e la grazia, da poco pubblicato da Città Nuova editrice. La risposta mi arrivò cinque giorni dopo. Scrisse che aveva ricevuto la copia del libro e che si apprestava a leggerlo. La mia recensione gli era piaciuta. Ne trasse alcuni spunti per riflettere sulla forza del pensiero “tensionante” di Agostino (aperto alla Grazia) rispetto a quello “lineare” della teologia scolastica (preoccupata di chiudere tutta la realtà in categorie intellettuali). In particolare padre Bergoglio si soffermava su questo brano del libro di don Giacomo che avevo evidenziato nel mio articolo: ‘Sant’Agostino arriva a dire, seguendo san Paolo, che tutta la dottrina cristiana senza la delectatio e la dilectio è lettera che uccide. Non è la cultura, neppure la dottrina cristiana, che può stabilire un rapporto con un uomo per il quale il cristianesimo è un passato che non lo riguarda. È qualcosa che viene prima. Questo qualcosa che viene prima sant’Agostino lo chiama delectatio e dilectio, cioè l’attrattiva amorosa della grazia”. (L. Brunelli, “L’attrattiva amorosa della grazia. Don Tantardini, Bergoglio e Agostino. Storia di incontri imprevisti e di un pensiero tensionante”, Terre d’America (26 giu. 2006).
Nella sua mail di risposta il cardinale, dimostrando una profonda sintonia con le osservazioni di Tantardini, scriveva: “In questo pensiero lineare non c’è posto per la delectatio e la dilectio, non c’è posto per lo stupore. Ed è così perché il pensiero lineare procede nella direzione contraria alla grazia. La grazia si riceve, è puro dono; il pensiero lineare si vede in obbligo di dare, di possedere. Non può aprirsi al dono, si muove unicamente a livello di possesso. La delectatio e la dilectio e lo stupore non si possono possedere: si ricevono, semplicemente. […] L’essenza manichea del fariseo non lascia nessuna fessura perché vi possa entrare la grazia; basta a se stesso, è autosufficiente, ha un pensiero lineare. Il pubblicano, al contrario, ha un pensiero tensionante che si apre al dono della grazia, possiede una coscienza che non è sufficiente ma profondamente mendicante”.
Certamente gli “spunti” che Bergoglio traeva dalla lettura de Il cuore e la grazia in sant’Agostino erano più di uno. Essi saranno alla base di una sua prefazione al nuovo volume di don Giacomo: Il tempo della Chiesa secondo Agostino che esce per Città Nuova nel 2010. In essa, dopo aver osservato come “Nelle pagine di questo libro scorrono le appassionate lezioni sull’attualità di sant’Agostino svolte da don Giacomo Tantardini presso l’Università degli Studi di Padova, nel corso di tre anni accademici, dal 2005 al 2008”, il cardinale scriveva:
“L’immagine per me più suggestiva di come si diventa cristiani, così come emerge in questo libro, è il modo in cui Agostino racconta e commenta l’incontro di Gesù con Zaccheo (pp. 279-281). Zaccheo è piccolo, e vuole vedere il Signore che passa, e allora si arrampica sul sicomoro. Racconta Agostino: ‘Et vidit Dominus ipsum Zacchaeum. Visus est, et vidit / E il Signore guardò proprio Zaccheo. Zaccheo fu guardato, e allora vide’. Colpisce, questo triplice vedere: quello di Zaccheo, quello di Gesù e poi ancora quello di Zaccheo, dopo essere stato guardato dal Signore. ‘Lo avrebbe visto passare anche se Gesù non avesse alzato gli occhi’, commenta don Giacomo, ‘ma non sarebbe stato un incontro. Avrebbe magari soddisfatto quel minimo di curiosità buona per cui era salito sull’albero, ma non sarebbe stato un incontro’ (p. 281). Qui sta il punto: alcuni credono che la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrario: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando Lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi, capisci che Lui stava là guardandoti, ti aspettava Lui, per primo. Ecco la salvezza: Lui ti ama prima. E tu ti lasci amare. La salvezza è proprio questo incontro dove Lui opera per primo. Se non si dà questo incontro, non siamo salvi. Possiamo fare discorsi sulla salvezza. Inventare sistemi teologici rassicuranti, che trasformano Dio in un notaio e il suo amore gratuito in un atto dovuto a cui Lui sarebbe costretto dalla sua natura. Ma non entriamo mai nel popolo di Dio. Invece, quando guardi il Signore e ti accorgi con gratitudine che Lo guardi perché Lui ti sta guardando, vanno via tutti i pregiudizi intellettuali, quell’elitismo dello spirito che è proprio di intellettuali senza talento ed è eticismo senza bontà”.
La sintonia tra il cardinale e don Giacomo era evidente. Preludeva ad una serie di incontri personali che si avranno tra il 2009 e il 2012. In quelle occasioni Bergoglio verrà ad officiare la messa a San Lorenzo fuori le Mura, la chiesa romana dove don Giacomo diceva messa il sabato sera. Ce ne parla Paolo Mattei in suo articolo uscito per Il Venerdì di Repubblica. “Fu nel marzo 2009 che cenai la prima volta con lui. Era a Roma, in visita al papa Benedetto XVI. La sera di sabato 7 marzo, invitato da don Giacomo, celebrò la messa e amministrò la cresima a una trentina di ragazzi a San Lorenzo fuori le Mura. Dopo, don Giacomo mi portò a cena col futuro Papa” (P. Mattei, “La sera andavamo a cena con il Papa a parlare di Borges”, Il Venerdì, 29 mar. 2013).
Rimangono alcune foto, che li vedono entrambi ridenti e felici in sagrestia, a testimonianza di quel momento. Di quella messa, se posso aggiungere un ricordo personale, rammento la sorpresa di fronte ad un’omelia semplice nel linguaggio, mirata a giovani cresimandi, straordinariamente ricca nel suo contenuto evangelico. Mattei ricorda anche un’altra messa celebrata dal cardinale a San Lorenzo, quella del 18 febbraio 2012. Don Giacomo stava allora molto male. Un cancro ai polmoni lo stava sfinendo da tempo con una tosse continua, persistente, dolorosa a sopportarsi e a vedersi. Gli rimanevano due mesi di vita. Mattei, che aveva incontrato il cardinale in casa di amici, ricorda come “Appena ci salutammo, mi chiese notizie di don Giacomo. […] Dopo un breve silenzio, mi raccomandò di dire a don Giacomo che l’indomani sera avrebbe dovuto fare uno sforzo e venire a San Lorenzo, perché lui voleva averlo vicino. Anche quella volta, infatti, il cardinale aveva accettato il suo invito a dire messa e cresimare altri ragazzi”. Durante l’omelia dirà: “Oggi, seguendo l’invito del mio amico don Giacomo, cui voglio tanto bene, noi tutti dobbiamo pregare per lui, perché è un pochettino malato…” (“Gesù ci darà la forza. Non voi, ma Lui in voi”, 30 Giorni, 1-2, 2012). Dopo la morte dell’amico, Bergoglio ricordando quel momento scriverà:
“L’ultima immagine che ho di lui mi commuove: durante la cerimonia delle cresime a San Lorenzo fuori le Mura, con le mani giunte, gli occhi aperti e stupiti, sorridente e serio allo stesso tempo. Lì, pregammo per la sua salute… e lui ringraziò con un gesto che era di speranza di guarire e, allo stesso tempo, di affidamento. Così, per grazia, si può perseverare nel cammino, fino alla fine: l’uomo–bambino si abbandona fra le braccia di Gesù mentre chiede che passi questo calice, e viene preso e portato in braccio, con le mani giunte e gli occhi aperti. Lasciandosi sorprendere ancora una volta, per il dono più grande. Ringrazio Dio nostro Signore di averlo conosciuto” (“Il mio amico don Giacomo”, 30 Giorni, 5-2012).
L’articolo pubblicato su 30 Giorni recava il titolo “Il mio amico don Giacomo”. In esso il futuro Papa scriveva: “Così, con questa memoria, ricordiamo don Giacomo e ci chiediamo: che cosa ci ha lasciato? Quali impronte di lui troviamo sul cammino della nostra vita? Oso semplicemente dire che ha lasciato le impronte di un uomo-bambino che non ha mai finito di stupirsi. Don Giacomo, l’uomo dello stupore; l’uomo che si è lasciato stupire da Dio e ha saputo dischiudere il cammino affinché questo stupore nascesse negli altri. Don Giacomo, un uomo sorpreso che, mentre guardava il Signore che lo chiamava, continuamente si chiedeva, quasi non riuscisse a crederci, come il Matteo del Caravaggio: io, Signore? Un uomo stupito di fronte a questa indescrivibile ‘sovrabbondanza’ della grazia che vince sull’abbondanza meschina del peccato, di quel peccato che ci sminuisce, sempre; un uomo stupito che si è sentito cercato, atteso e amato dal Signore molto prima che fosse lui a cercarlo, ad attenderlo e ad amarlo; un uomo stupito che, come quelli del lago di Tiberiade, non osava chiedergli chi fosse perché sapeva bene che era il Signore. E quest’uomo stupito si è lasciato, più di una volta, interrogare: ‘Mi ami?’, per rispondere con la semplicità ardente dell’amore: ‘Signore, tu lo sai che ti amo’. Ed era così perché quest’uomo-bambino nutriva il suo amore con la semplice ma sapienziale prontezza della contemplazione di tutta quella Grazia che lo superava. Don Giacomo era così. Non aveva perduto la capacità di sorprendersi; rifletteva a partire da quello stupore che riceveva e alimentava nella preghiera. A volte, dava l’impressione che questa sensibilità lo provasse, lo stancasse o lo rendesse irrequieto, e questo non è raro in un uomo dal temperamento umano forte, sul quale la Grazia non ha cessato di lavorare nella sua conversione alla mansuetudine”.
Il ricordo diverrà poi la prefazione di un volume postumo di don Giacomo, Anche la fede domanda (Città Nuova, 2013). Certo è che Bergoglio, divenuto nel frattempo papa Francesco, non ha mai in questi anni dimenticato il suo amico “romano”. Non solo nelle messe mattutine a Santa Marta in occasione delle ricorrenze della morte, ma anche in altre occasioni. Il 22 dicembre 2017, in un video trasmesso durante la presentazione di un volume di don Marco Pozza all’Aula Magna del Palazzo Bo di Padova, il Pontefice ricorderà come “In quell’aula anche don Giacomo Tantardini ha fatto scuola… bravo, io l’ho conosciuto tanto”.
Nel 2018 Francesco scriverà la prefazione al volumetto Chi prega si salva, già introdotto nel 2005 dall’allora cardinale Ratzinger. Un testo edito da 30 Giorni, tradotto nelle principali lingue e contenenti le principali preghiere della tradizione cristiana, a cui don Giacomo teneva moltissimo, una delle sue espressioni più significative di servizio alla Chiesa universale. Nella sua introduzione il Papa scrive:
“‘Vieni dunque, Signore Gesù. Vieni a me, cercami, trovami, prendimi in braccio, portami’. Questa preghiera di sant’Ambrogio era molto cara a don Giacomo Tantardini, la recitava spesso, ci ricorda il suo cuore bambino, la sua preghiera così cosciente che è il Signore il primo a prendere l’iniziativa e noi non possiamo fare niente senza di Lui. Non a caso a questo libretto volle dare come titolo ‘Chi prega si salva’, un’espressione di sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Gli amici di don Giacomo lo considerano il suo regalo più bello: un piccolo libro in cui, su richiesta di giovani che si convertivano al cristianesimo, il sacerdote volle raccogliere le preghiere più semplici della tradizione cristiana e tutto ciò che aiuta a fare una buona Confessione. Tradotto nelle principali lingue, è stato diffuso in centinaia di migliaia di copie in tutto il mondo dalla rivista 30 Giorni, giungendo gratuitamente anche in molte missioni cattoliche sparse in ogni angolo del pianeta, e anche oggi mi dicono che continuano a giungere numerose richieste di esemplari”.
Don Giacomo, per il Papa, è il sacerdote dal cuore bambino, l’uomo dello stupore; l’uomo che si è lasciato stupire da Dio e ha saputo dischiudere il cammino affinché questo stupore nascesse negli altri. Una memoria commossa, carica di affetto e di stima. Non si poteva ricordarlo in modo migliore. Il rapporto tra il cardinal Jorge Mario Bergoglio e don Giacomo Tantardini è stato contrassegnato da un’autentica amicizia sorta in una comune sintonia nel percepire l’accadere della fede. “Certo – come ha scritto Graziano Debellini – Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco ha una storia diversa da quella di don Giacomo Tantardini, una sensibilità diversa nel declinare il cristianesimo: l’uno figlio della Chiesa sudamericana, l’altro di quella ambrosiana. Ma il punto di partenza, e di ripartenza, è eguale. Tanto che quando don Giacomo fece inserire il suo ultimo intervento su 30 Giorni, volle che accanto fosse pubblicato uno scritto del cardinal Bergoglio. Si tratta di due omelie: la prima tenuta da don Giacomo nell’anniversario della morte di don Giussani (proprio a Padova), la seconda era del cardinale argentino pronunciata durante una messa a San Lorenzo fuori le Mura, a Roma, invitato dal suo amico sacerdote”.
Nell’unire insieme le due omelie don Giacomo tesseva un filo ideale tra la sua persona, e dietro di lui don Giussani, e Bergoglio. Lo poteva fare, nonostante le differenze, anche perché entrambi, il sacerdote ambrosiano e il cardinale di Buenos Aires, nutrivano la stessa stima e devozione per Paolo VI. Il “grande Paolo VI” di Bergoglio è il cardinal Montini, arcivescovo di Milano, a cui don Giacomo ha sempre guardato con grande affetto e rispetto. A lui 30 Giorni dedicherà il volume del 2008 Montini e Agostino. Sant’Agostino negli appunti inediti di Paolo VI, a cura di Lorenzo Bianchi con la prefazione di Giulio Andreotti.
La storia del rapporto tra don Giacomo e 30 Giorni con il cardinal Bergoglio non si è conclusa con la morte del sacerdote brianzolo innamorato di Roma. Tanti motivi che 30 Giorni ha posto al centro dell’attenzione ecclesiale, dagli anni 90 alla sua chiusura, dai rischi del pelagianesimo e dello gnosticismo, dal ripensamento agostiniano sul rapporto tra le due città fuori da manicheismi di sorta, al primato della grazia e del suo operare nel tempo, sono oggi presenti nel pontificato e nei documenti di papa Francesco. Bergoglio non ha dimenticato il suo amico di San Lorenzo. Ne ha serbato la memoria più autentica affidando molte sue intuizioni alla Chiesa universale.
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