Nel momento in cui ho varcato la soglia della chiesa e ho visto la piccola bara bianca, poco più grande di una scatola di scarpe, tutto si è svelato senza finzioni. Non c’è nulla al mondo come la morte di un neonato che tolga ogni illusione a noi esseri umani. Ci chiamiamo mortali perché questa è la definizione più appropriata. Nonostante l’apparente potenza tecnologica del nostro tempo, siamo mortali. Esattamente come l’uomo della caverna o della foresta.
Il neonato si chiama Luigi, è mio nipote, figlio di mio figlio Giacomo e di sua moglie Maddalena. Una malformazione congenita svelata al momento di un’ecografia al terzo mese di gravidanza ha messo i genitori del bimbo, noi parenti e gli amici più vicini davanti a questa porta terribilmente stretta. Solo il pensiero di doverci passare attraverso, senza sapere quanto lungo e quanto duro sarebbe stato il cunicolo che essa svelava, mi metteva a disagio, mi creava un sordo fastidio che si ingrandiva col passare del tempo e col progredire della gravidanza. Soprattutto il pensiero per i genitori e i fratellini di Luigi, per quello che li aspettava inevitabilmente, senza sconti, scuoteva ogni mia certezza, eliminava ogni tranquillità…
Mi sono sorpreso più volte a pensare che avrei voluto togliere loro questo peso in qualunque modo, magari anche chiedendo, con la mia poca fede, il miracolo della guarigione a Dio.
In mezzo a questo mare di nebbia grigia e triste, rassegnato al peggio, qualcosa di inaspettato è accaduto davvero. Capovolgendo la mia vita rispetto al mio miope sguardo: non è stata la guarigione, cercata forse solo come sistemazione delle cose, per evitare il peggio. Ho aperto gli occhi su quello che la malattia di Luigi stava creando: una trasformazione radicale delle persone, in primo luogo di mamma Maddy, di papà Giacomo e dei loro figli, la possibilità di guardare Luigi con apertura di cuore, lo stupore di incontrare continuamente Qualcuno che ci cammina accanto e che noi riconosciamo nel nostro cuore che cambia, che lo avverte. Il signore della vita ci guarda e cammina con noi, ci visita e ci costringe a essere essenziali, a vedere nell’altro il mistero della vita.
In queste settimane ho riconosciuto in mio figlio e sua moglie una fede viva e vissuta a cui guardare: la certezza che la vita del loro Luigi, durata mezz’ora, ha un senso e un destino compiuto, è utile per tutti. Imparare dai propri figli è una nobile affermazione, farlo davvero è un’esperienza di pienezza particolare e forse anche di umiltà.
Durante le diverse visite ospedaliere durante la gravidanza, quando si è fatta strada purtroppo la certezza di questa malformazione incompatibile con la vita dopo la nascita, Maddy e Giacomo hanno stupito gli operatori sanitari che li incontravano: il loro affetto senza misure, senza condizioni, dettato da un amore ma anche da una ragione che non è offuscata dalle ideologie sui figli non voluti o dai soliti “si deve sempre far così” e che ha vissuto qualcosa che non si fa mai: trattare il proprio figlio come se fosse una persona.
Il “come se fosse” è d’obbligo: eliminare tuo figlio perché difettoso, come fan tutti, naturalmente e scontatamente, significa non considerarlo una persona, non valutarlo un figlio. Forse solo un incidente di percorso o un pezzo anatomico malriuscito. Ma è veramente una persona e allora le conseguenze fioriscono spontaneamente. Attenderlo nel raccoglimento di quei dolorosi mesi, sentirlo muovere silenzioso, controllarlo regolarmente, condividere con gli amici e i famigliari la preghiera continua per un bene che ognuno nel suo cuore identificava con un’aspettativa diversa (ma va bene così, ogni domanda ha la sua infinita dignità, nessuna domanda sincera a Dio può essere quella sbagliata), preparare i fratellini all’esistenza di questo nuovo bimbo che ha tanta fretta di tornare da dove era venuto, quasi un visitatore che ci tiene moltissimo a salutarci e a portarci i saluti di chi l’ha inviato come vero angelo, anche solo per mezz’ora ma ci tiene proprio, per poi ripartire per affari molti importanti, tutto questo è stato dolorosamente normale per la sua famiglia.
Il loro amore, umile e disponibile, ha semplicemente voluto trattare Luigi come una persona. Niente di più di quello che è. Rispetto assoluto e dovuto. Non esagerazioni o ideologie religiose, non certo fanatismo pro-life. No, semplicemente Luigi, il loro quinto figlio. Il loro amatissimo e desiderato figlio. L’imbarazzo di tanti cui si raccontava di questa dolorosa e amata gravidanza si concludeva quasi sempre così: “ma come, lo porta a termine?”. Come se una persona dovesse giustificare la propria esistenza dimostrando qualcosa o promettendo di compiere un’aspettativa, un futuro di valore. Altrimenti niente.
Quando Luigi è nato, poco prima di mezzanotte, Caterina, Stefano, Lucia, Francesco dormivano nel lettone a casa di noi nonni. La videotelefonata di Giacomo con la notizia della nascita di Luigi ha interrotto il loro sonno pieno di attesa. Li abbiamo svegliati per mostrare loro i genitori che abbracciavano Luigi che respirava a fatica nella sua unica mezz’ora di vita terrena e per farlo loro conoscere. Un momento drammatico per tutti, ma anche pieno di una strana letizia. “Che bello mamma, ti assomiglia, che piccolo, come sta? Mettigli il cappellino che ti ho dato io”. Tra le lacrime di tutti.
Poi quello che né io né tutto il personale della sala parto in quel momento stranamente affollata e raccolta dimenticherà mai è stata la proposta di mamma Maddy ai suoi figli: “Bambini, cantiamo insieme l’angelo di Dio”. Pochi minuti di estasi (forse bisogna sentirlo per credere, ma anche chi non l’ha sentito può ragionevolmente credere) in cui oltre a piangere ho capito che nessuno è esentato da questo amore che chiede sempre di più per sua natura. Che chiede molto, che apparentemente ti porta via un figlio, ma che ti regala bellezza e intensità che non saresti mai capace di creare da solo, di inventare.
Non mi scorderò mai questo canto condiviso tra una sala parto e quattro bimbi. Un prodigio, un paradiso. Ma chi dà il coraggio e la spontaneità di fare questo al culmine di un dramma certamente darà tutto quello di cui abbiamo bisogno: la sua intensa vicinanza.
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