Nella notte del 12 gennaio 2021 il Consiglio dei Ministri presieduto da Giuseppe Conte ha approvato, con l’astensione delle Ministre di Italia Viva, la bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). In quel momento si è aperta, di fatto, la crisi di governo accompagnata, come sempre, da riflessioni e polemiche. Si è detto, da più parti, che il Piano è una collezione di proposte senza una chiara visione del futuro del Paese.
In generale, il “piano strategico” è un documento programmatico che traccia il percorso futuro di una comunità, che può essere un’azienda, un’università, una città o un Paese. Gli elementi essenziali di ogni piano strategico sono la “visione” o vision (ciò che si vuol diventare), la “missione” o mission (il percorso che si vuol seguire), gli “obiettivi” intermedi e finali da raggiungere, le “risorse” umane e finanziarie a disposizione, le “azioni” da intraprendere per raggiungere gli obiettivi programmati e un “cruscotto” di indicatori e target quantitativi per valutare se e in che misura si stanno raggiungendo i risultati attesi. Ad esempio, la famosa vision di Microsoft era: “Un personal computer su ogni scrivania, e ogni computer con un software Microsoft installato”.
L’Unione Europea non è un’azienda e gli Stati membri non sono le sue filiali ma il Recovery Plan, europeo e nazionale, recepisce la logica del piano strategico.
Per cercare di capire le caratteristiche e i punti di forza e debolezza del Piano italiano dobbiamo compiere due brevi passi: valutare innanzitutto il quadro di rifermento europeo e poi esaminare la bozza di documento approvata dal Consiglio dei Ministri lo scorso 12 gennaio.
Il 21 luglio 2020 il Consiglio Europeo, al termine di una riunione durata quattro giorni, approva il Quadro Finanziario Pluriennale 2021-27 (il tradizionale bilancio a lungo termine dell’Unione Europea) e il Next Generation EU, un piano straordinario per fronteggiare la pandemia che stanzia 750 miliardi di euro, cui 360 per prestiti agevolati, 312,5 per trasferimenti a fondo perduto e 77,5 per altri interventi. All’Italia va la quota maggiore dei finanziamenti con 209 miliardi circa, di cui 81 circa per trasferimenti a fondo perduto (grants) e 128 circa per prestiti agevolati (loans). Viene stabilito che i singoli Paesi, per accedere ai fondi europei, dovranno presentare dei Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza (PNRR) che saranno esaminati ed approvati (o respinti) dalle competenti autorità europee tenendo conto di una duplice condizionalità. La prima è di ordine tematico: i Piani dovranno prevedere le riforme strutturali “raccomandate” dalla Commissione Europea ai singoli Paesi e contribuire al raggiungimento degli obiettivi strategici indicati nel Green Deal europeo ovvero la transizione verso un’economia più verde e digitale. La seconda condizionalità è di ordine temporale: il 70 per cento delle sovvenzioni dovrà essere impegnato nel biennio 2021-22 e il restante 30 per centro entro la fine del 2023 in modo da completare il Piano entro il 2026.
Il 17 settembre 2020 la Commissione Europea approva la “Strategia annuale per la crescita sostenibile 2021” in cui precisa il funzionamento del “Recovery and Resilience Facility” (il “dispositivo” preposto alla gestione del Next Generation EU) e conferma la volontà di accelerare, anziché rallentare, la transizione verso un modello di sviluppo sostenibile fondato su quattro dimensioni: sostenibilità ambientale, produttività, equità e stabilità macroeconomica. I Piani nazionali dovranno destinare almeno il 37 per cento delle risorse alla transizione ecologica e almeno il 20 per cento alla transizione digitale e saranno valutati sulla base degli obiettivi intermedi e finali effettivamente raggiunti. L’Europa potrà interrompere o revocare l’erogazione dei finanziamenti previsti nel caso in cui i Paesi non rispettino gli impegni assunti.
L’Europa mette dunque a disposizione dell’Italia ingenti risorse, per conseguire obiettivi ambiziosi, ma pone anche stringenti condizionalità.
Prima di scoprire se il Piano italiano contiene gli elementi essenziali di ogni piano strategico – visione, missione, obiettivi, risorse, azioni, target – può essere utile ricordare l’iter di approvazione così come è stato riassunto nello stesso documento licenziato dal Governo.
Nella primavera del 2020 il Governo affida ad un Comitato di esperti, coordinati da Vittorio Colao, il compito di elaborare delle proposte per il rilancio del Paese. Nel giugno dello stesso anno si svolge, nella sede di Villa Pamphilj, una consultazione pubblica con i rappresentanti delle istituzioni e delle parti sociali. Ad agosto il coordinamento dei lavori per la stesura del PNRR è assunto dal Comitato interministeriale per gli Affari Europei (CIAE), che a sua volta incarica il Comitato Tecnico di Valutazione di gestire operativamente i lavori. A settembre, il CIAE approva una proposta di Linee Guida, coerenti con quelle indicate dalla Commissione Europea il 17 settembre, che viene sottoposta all’esame del Parlamento italiano. Il 13 e 14 ottobre le Camere si pronunciano con un atto di indirizzo che invita il Governo a predisporre il Piano. Il Governo, su questa base, intraprende un dialogo informale con la task force della Commissione Europea. Il 7 dicembre 2020 una prima bozza di Piano viene presentata al Consiglio dei Ministri per un’illustrazione preliminare e un confronto interno alle forze di maggioranza. Il 12 gennaio 2021 il Consiglio dei Ministri approva la proposta di PNRR “che costituisce la base di discussione per il confronto con il Parlamento, le istituzioni regionali e locali, le forze economiche e sociali, il Terzo Settore e le reti di cittadinanza, ai fini dell’adozione definitiva del Piano” (p. 12).
Nel Piano c’è innanzitutto una “visione”, che non è riassunta in uno slogan come nel caso della Microsoft, ma c’è ed è quella dell’Unione Europea. L’Italia, insieme al resto d’Europa, vuole uscire dalla crisi pandemica adottando un modello di “integrale” sviluppo sostenibile. Di nuovo, non c’è l’aggettivo ma l’idea sì. Infatti, se riflettiamo sugli assi strategici dell’Unione Europea, che l’Italia fa propri, ce ne accorgiamo. Lo sviluppo economico, come è noto, è sostenibile quando consente alle generazioni presenti di soddisfare i propri bisogni senza pregiudicare la stessa opportunità per le generazioni future. Di solito pensiamo, giustamente, alla tutela ambientale. Uno sviluppo che inquina o danneggia la natura non è sostenibile perché danneggia le future generazioni. Ma lo stesso vale per altre dimensioni. Uno sviluppo che genera disoccupazione, povertà, emarginazione, disuguaglianza, non è sostenibile nel tempo perché, prima o poi, provoca rabbia e rivolte sociali. Lo stesso vale per il debito pubblico. Uno sviluppo che scarica i costi sulle generazioni future non è sostenibile.
Nel PNRR italiano si legge: “L’azione di rilancio del Paese delineata dal Piano è guidata da obiettivi di policy e interventi connessi ai tre assi strategici condivisi a livello europeo: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale” (p. 7). La digitalizzazione e l’innovazione mirano ad accrescere la competitività del sistema produttivo italiano, e cioè lo sviluppo economico (effettivo e potenziale), la transizione ecologica a tutelare il patrimonio naturale e quindi la sostenibilità ambientale, l’inclusione sociale ad accrescere l’occupazione nei settori emergenti e a ridurre le disuguaglianze e quindi a promuovere la sostenibilità sociale. Nel documento si ribadisce anche l’impegno del Governo a tenere sotto controllo il livello di indebitamento pubblico nella consapevolezza che le regole del Patto di Stabilità e Crescita saranno presto ristabilite. Vi è dunque, implicito, un quarto asse strategico che mira ad assicurare la sostenibilità economica. La vision del PNRR è l’adozione di un modello europeo di integrale sviluppo sostenibile.
La mission, e cioè la strada che si vuol percorrere, si articola in sei corsie: “Le sei Missioni del PNRR rappresentano aree “tematiche” strutturali di intervento: 1. Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile; 4. Istruzione e ricerca; 5. Inclusione e coesione; 6. Salute” (p. 17).
Le 6 Missioni, che si strutturano in 16 Componenti, perseguono 40 Obiettivi generali attraverso 48 Linee di intervento (o azioni) e una serie di Riforme di contesto conformi alle “raccomandazioni” dell’Unione: dalla giustizia alla pubblica amministrazione. Ad ogni Componente è assegnata una risorsa finanziaria (ai 209 miliardi del Next Generation EU si aggiungono ulteriori 100 miliardi di fondi pluriennali).
Per esempio, la Prima Missione, denominata “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”, si articola in 3 Componenti: “Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA” (11,45 miliardi), “Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo” (26,73 miliardi), “Turismo e cultura 4.0” (8 miliardi). La Missione persegue 7 Obiettivi generali, tra cui “Sostenere l’innovazione e la competitività del Sistema produttivo, con particolare attenzione alle PMI ed alle filiere produttive” mentre la connessa Seconda Componente ha tra i propri specifici Obiettivi quello di “Favorire lo sviluppo delle filiere produttive, in particolare quelle innovative, nonché del Made in Italy aumentare la competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali, utilizzando a tale anche strumenti finanziari innovativi”.
Cosa manca? Innanzitutto i target quantitativi. E cioè, per stare all’esempio, è necessario precisare attraverso quali concreti progetti operativi si intende “aumentare la competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali” e misurare i risultati attesi e quelli conseguiti. In secondo luogo, sembra mancare la piena consapevolezza che alcuni obiettivi potrebbero risultare incompatibili, almeno nel breve periodo (digitalizzazione e occupazione). Infine, e soprattutto, manca ancora un modello di governance e cioè la chiara indicazione “di chi fa cosa”. Si legge nel documento approvato il 12 gennaio: “Il Governo, sulla base delle linee guida europee per l’attuazione del Piano, presenterà al Parlamento un modello di governance che identifichi la responsabilità della realizzazione del Piano, garantisca il coordinamento con i Ministri competenti a livello nazionale e gli altri livelli di governo, monitori i progressi di avanzamento della spesa” (p. 12). Quando? E come sarà il modello di governance? Saremo capaci di fare in poco tempo le riforme attese da decenni e di spendere fondi europei molto più ingenti e condizionati di quelli strutturali che nel recente passato siamo stati in grado di utilizzare solo in minima parte?
In conclusione, i principali punti di forza (le luci) del Piano italiano sembrano consistere nell’adozione di un innovativo modello europeo di sviluppo sostenibile, nell’indicazione di ambiziosi obiettivi di ammodernamento del sistema produttivo e nella condivisa allocazione delle ingenti risorse finanziarie messe a disposizione dall’Unione Europea. I principali punti di debolezza (le ombre) sembrano invece riguardare una certa genericità nella relazione tra obiettivi e strumenti, la correlata assenza di un cruscotto di indicatori e target quantitativi che possa guidare le scelte operative e, soprattutto, la mancanza di un modello di governance.
Insomma, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è ancora una bozza. E il tempo si fa breve. I Piani nazionali potevano essere presentati a partire dal 1° gennaio 2021 e fino al 30 aprile. Avremmo dovuto essere tra i primi, rischiamo di essere tra gli ultimi.