Enrico Letta ha comunicato i primi passi di quello che, forse lui e solo lui, considera la ricostruzione del supposto primo partito della sinistra italiana, cioè il Pd.
Dopo la sconfitta del 25 settembre, dopo una campagna elettorale che non aveva punti di riferimento precisi, se non una difesa rituale dell’antifascismo, pensando di esserne l’alfiere indiscusso, dopo essere riuscito a far vincere il partito più a destra d’Italia (un record da non dimenticare più), ha spiegato che il Partito democratico, se ancora sarà così e avrà questo nome, ha convocato le primarie per il 12 marzo del 2023.
Praticamente solo tra cinque mesi e mezzo, i superstiti rappresentanti della sinistra italiana più rappresentativa decideranno segretario, gruppo dirigente e forse la linea del partito.
In Italia la storia della sinistra è stata spesso complessa e contraddittoria, ma un periodo che appare un tramonto come questo non lo ha mai vissuto. E’ difficile rintracciarlo tra le pieghe del passato.
L’ultimo sondaggio alla fine di questa settimana mette il Pd, anche se solo per pochi decimi, dietro al M5s di Giuseppe Conte. Considerando che, a un mese dal risultato elettorale e dopo l’insediamento di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, quasi a tempo di record con tanto di fiducia, non si è ancora formata alcuna coalizione che possa contrastare il percorso di questo governo, il Pd ha perso pure il ruolo di “secondo polo”, passandolo al movimento dei grillini quello che Claudio Velardi definisce “la malattia senile del comunismo”.
E Claudio Velardi non è un uomo di destra, ma un progressista da una vita, che è stato, tra l’altro, dal 1998 al 2000 capo dello staff dell’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema, primo presidente del Consiglio post-comunista.
L’impressione è che Letta non comprenda che il Pd, dilaniato al suo interno, appaia all’esterno quasi in “caduta libera”, non riesca a mobilitare nessuno e soprattutto non cerchi di porvi rimedio con le necessarie iniziative per ritornare a essere un protagonista della vita italiana come sarebbe doveroso.
Qualsiasi analista, di differenti posizioni politiche, si aspettava non una serie di riunioni quasi “clandestine” di direzione, con un numero spropositato di iscritti al partito, ma la preparazione di un congresso, da celebrare al più presto possibile, con commissioni che dibattessero sulla sconfitta, delineassero un nuovo gruppo dirigente e soprattutto una linea politica attraverso un confronto serrato tra dirigenti e platee di militanti in diverse parti d’Italia. Ora dopo queste scadenze, ricorre ancora una domanda: ma che cosa vuole veramente questo Pd? E la risposta è quasi sempre problematica.
Se si pensa alla storia della sinistra nel suo complesso, si può dire che ci furono sempre reazioni immediate o quanto meno rapide, di fronte ai problemi, anche gravi, che si presentavano.
Facciamo un breve bilancio. Dopo il 1956 e l’invasione dell’Ungheria, il Psi di Pietro Nenni prese le distanze dal Pci e condannò l’Unione Sovietica, rompendo quello che era stato il Fronte Popolare.
Nel Pci scoppiò il primo finimondo con il famoso “Documento dei 101” e l’uscita dal Pci di tantissimi intellettuali. Dopo il XX, il XXI, e soprattutto il XXII congresso del Pcus, nel novembre del 1961, ci fu il più contrastato comitato centrale del Pci, con Giorgio Amendola in prima fila insieme a gran parte del gruppo dirigente, che attaccarono duramente l’Urss e direttamente il segretario Palmiro Togliatti.
A metà ottobre del 1964, Amendola propose il superamento del marxismo leninismo, la formazione di una sinistra unita dal Pci fino ai socialdemocratici e repubblicani, per formare un partito unico di stampo laburista con un nome del tutto nuovo.
Da quel momento nel Pci si verificò una spaccatura che, di fatto, fu spesso nascosta, ma mai veramente sanata. Quella spaccatura durò fino alla morte di Amendola, passando prima dal Comitato centrale del novembre del 1979, quando Amendola attaccò la linea di Berlinguer per la mancata e più dura condanna dell’estremismo che passava per il sindacato e per il partito nella vicenda Fiat di quell’epoca e, ancora una volta, per la mancanza di rapporti con i socialisti.
Tutti questi contrasti facevano pensare a una diversa articolazione della sinistra, ma non di certo a una sua lenta posizione di marginalità politica. Proseguivano i dibattiti, le divisioni e i contrasti, ma la sinistra, sia comunista che socialista, erano immerse nella realtà politica, sociale ed economica e non si affidavano a “primarie”, “congressi di là da venire” e a “gruppi dirigenti inamovibili”. E questo non avvenne nemmeno nei primi anni quando il Pci dovette cambiare nome per l’implosione del comunismo sovietico.
Ora sembra che, nei resti di una sinistra sopravvissuta dopo che è stata “tagliata” con l’accetta della giustizia l’ala socialista, sia arrivato una sorta di immobilismo senza idee e autentici confronti di linea.
Ci sono ragioni anche discutibili nelle critiche politiche che vengono da Fausto Bertinotti e da Massimo Cacciari, che sono esterni al Pd, ma ci sono ragioni profonde anche in Matteo Orfini. ancora deputato del Pd, che dice seccamente: “Il partito va sciolto e rifondato, ha pensato solo ad allearsi e ha rinunciato alla politica”. E Orfini, con molti altri, vede una situazione che scivola proprio verso il “viale del tramonto” così come è avvenuto in Francia, dove il partito socialista è di fatto sparito dalla scena politica.
C’è chi si chiede, a questo punto paradossalmente, chi può essere il nuovo “Jean Luc Mèlenchon italiano” e viene in mente solo qualche strano e bizzarro “habitué” di talk show televisivi, oppure qualche magistrato che si è distinto per perdere “cause storiche”, aver seminato “processi di stile inquisitorio” e continuare a ripetere da vent’anni le stesse cose.
No, non può essere questa la strada che la sinistra italiana deve percorrere, avendo la consapevolezza che la fine di una sinistra democratica, radicata nel tempo e sempre contraria a ogni totalitarismo e a ogni forma anche di conservatorismo, sarebbe una tragedia per la storia futura di un Paese democratico.
E’ proprio la presenza di una visione conservatrice democratica e quella di un riformismo democratico che assicurano la vita di uno Stato di diritto, in un confronto continuo e in un dibattito non ideologico. Non è difficile comprenderlo, guardandosi anche in giro per il mondo dove ogni forzatura, a destra o a sinistra, mette in crisi le democrazie.
Un congresso in tempi brevi, un dibattito serrato anche con la costellazione delle tante organizzazioni del terzo settore, una coscienza della realtà sociale del Paese ridarebbero probabilmente alla sinistra un ruolo di presenza e di proposta che è indispensabile.
Limitarsi alla celebrazione di ricorrenze, ai ricordi, magari confusi, è un fatto importante, ma allo stesso tempo limitato. Bene onorare Matteotti, era un riformista autentico però, cioè uno che, secondo Lenin, per il ventunesimo punto del primo Komintern, doveva essere espulso dal Pci. Perché poi non fare una giornata in ricordo di Turati, il 14 novembre, l’unico che proprio cento anni fa parlò in Parlamento contro la “marcia su Roma” e contro Mussolini? Forse perché era il capo dei riformisti italiani? Perché non rivalutare la “risposta morale” dell’Aventino? Perché non si è mai ricordato il capo del CLNAI e poi del CLN Alfredo Pizzoni? Forse perché non aveva un partito?
E’ meglio che il Pd passi dai ricordi “confusi” a una politica attiva per risparmiarci anni di governi di destra e riguardi con attenzione tutta la storia dell’antifascismo. Altrimenti si arriverà inevitabilmente al tramonto e per qualche anno, Giuseppe Conte, il funambolo dei cambiamenti politici, verrà scambiato per il Lev Trockij di Volturara Appula.
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