Un consenso così va oltre le più rosee previsioni. Matteo Salvini si è messo “a disposizione” con espressione addirittura militaresca. Il Movimento 5 Stelle strigliato da Beppe Grillo ha aderito senza sabotare (almeno finora). Persino Giorgia Meloni ha annacquato il suo no con l’impegno a collaborare nell’interesse del Paese (pardon della nazione). Silvio Berlusconi ci sta senza indugi. Quanto a Nicola Zingaretti, quello di “o Conte o il voto”, ha steso il tappeto rosso.



È un consenso sulla carta, ora spetta a Mario Draghi trasformarlo in appoggio concreto e per questo deve sciogliere alcuni nodi prioritari: trovare un punto di equilibrio tra componente tecnica e politica, scegliere i ministri e affrontare i contenuti dirimenti del programma che emergeranno con maggior chiarezza domani nelle consultazioni con le parti sociali. Gli scacchi gli sono stati utilissimi la scorsa settimana, adesso gli serve il golf, deve andare in buca senza sprecare i colpi.



Il Governo che sta per nascere sarà politico o tecnico? La questione vera è se entreranno gli esponenti dei partiti, chi sarà e in che veste. Il gabinetto Monti doveva essere pienamente politico nelle intenzioni del presidente Giorgio Napolitano, il quale propose che il presidente del Consiglio fosse sostenuto, in qualità di vicepresidenti, dai capi dei partiti che lo sostenevano. Aveva accolto l’invito anche Silvio Berlusconi, indicando Angelino Alfano per evidente opportunità. Si oppose Pier Luigi Bersani, il quale voleva che Napolitano sciogliesse il Parlamento per indire elezioni anticipate (il segretario del Pd era convinto di vincerle a mani basse). In seguito a questa impuntatura, Mario Monti guidò un Governo tecnico. Ora si dice che il modello sia piuttosto quello sperimentato da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, con un misto di tecnici e politici, però il paragone è improprio perché aveva pur sempre una maggioranza di centrosinistra, come ha opportunamente ricordato Monti. Il gabinetto Draghi, invece, si presenta, ancor più dopo le consultazioni di ieri, come un Governo di unità nazionale. Dunque, per gli amanti della storia politica, siamo di fronte a qualcosa di inedito, diverso persino dall’immediato dopoguerra o da metà anni 70 perché alla guida c’era, in ogni caso, un leader politico. 



Le formule sono importanti, tuttavia la prova del nove riguarda senza dubbio la sostanza. E fin dalle consultazioni di ieri sono state messe sul tavolo del negoziato alcune questioni decisive per la nascita e il decollo del Governo Draghi. Una l’ha detta con chiarezza Vito Crimi: “Abbiamo ribadito la nostra volontà che non siano indebolite misure come il reddito di cittadinanza”. Un tabù, una conditio sine qua non? Non proprio, ma certo il M5s ha chiesto un omaggio alla sua bandiera. Draghi non è insensibile; se si legge l’intervento al Meeting di Rimini nell’agosto scorso, si trova una chiaro riferimento alla necessità di sostenere i redditi, ancor più nel bel mezzo della pandemia. Anche dalla Banca d’Italia è venuto recentemente un certo apprezzamento. Dove la legge ha fatto davvero fallimento (al di là degli usi e degli abusi) è nell’avvio al lavoro. Tutto il carrozzone dei navigator e dell’Anpal di Mimmo Parisi è stato un disastro al quale rimediare al più presto. Dunque, è prevedibile che il nuovo Governo non cancelli il reddito di cittadinanza come vorrebbe il presidente della Confindustria Bonomi, ma lo riproponga in forma diversa all’interno di una riforma del mercato del lavoro, una delle grandi riforme chieste dall’Unione Europea all’interno del Recovery plan e sollecitate da Ignazio Visco nel suo intervento di ieri al Forex. 

È uno snodo decisivo che porta direttamente alla questione dei licenziamenti. Il 31 marzo scade il blocco, ed è la prima grana concreta che Draghi dovrà affrontare. È probabile che ci sia una nuova proroga perché il Governo appena insediato chiederà tempo per valutare il da farsi e preparare una proposta, accontentando così nell’immediato i sindacati. Ma la bomba sociale resta innescata anche se il timer verrà spostato in avanti. C’è da immaginare che Draghi voglia tornare gradualmente alla normalità, avviando nel frattempo la revisione degli ammortizzatori sociali, dalla cassa integrazione all’indennità di disoccupazione. Sarà uno dei capitoli chiave del piano per la ripresa.

C’è poi l’altra santabarbara pronta a scoppiare: le pensioni. E qui l’interlocutore principale è la Lega, perché Matteo Salvini aveva fatto di quota 100 la sua linea del Piave. Il provvedimento finisce quest’anno, quindi bisogna in ogni caso metterci mano per evitare un gigantesco scalone tra chi è andato in pensione e chi no. La Lega parla di 41 anni di contributi per tutti e c’è chi avanza la proposta di Quota 102, intanto si sta già discutendo di tornare a un meccanismo flessibile, legato alla curva demografica, con la stessa filosofia, ma in modo diverso da quel che prevedeva la legge Fornero. Dunque, porte aperte alla discussione e alle proposte (sperando che Salvini si affidi ad Alberto Brambilla che se ne intende davvero). 

Ci sono, insomma, le premesse affinché si trovi un accordo sui punti del programma dai quali dipende l’appoggio al Governo. Non sarà facile e sarà forse ancor più duro mettere mano ad altre riforme di carattere strategico come la giustizia. Ma è inutile fasciarsi la testa in anticipo. Draghi procede in modo sistematico, tuttavia è capace di improvvisi colpi d’ala e farà whatever it takes per condurre in porto la nave Italia.

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