1. Le parole di Ungaretti in Risvegli descrivono i temi peculiari della produzione poetica della raccolta poetica L’Allegria, Il porto sepolto, laddove pregnante si scorge in esse la tensione verso un certo senso di purezza, verso un certo nostalgico disfarsi in tempo altro, in altre vite, “fuori di me”, “in un’epoca fonda”, che racchiuderebbero il senso di quella sospensione caratteristica di molte delle liriche del poeta, caratterizzate da un tempo bloccato in una cecità quasi onirica determinata dal disperdersi in e al di fuori di sé (“Sono lontano colla mia memoria”).



Nella poesia è presente, cioè, la ricerca di un’autenticità originaria, di una volontà di partecipazione ad un destino malinconico di morte comune non solo ai soldati in guerra, ma all’uomo in quanto essere, rimarcato dalla domanda “Ma Dio cos’è?” nata dalla timorosa percezione di un infinito leopardiano contrapposto ad una finitezza tutta umana (“mi rammento/ di qualche amico/ morto”).



Il tema, tuttavia, si realizza in un linguaggio che fa riferimento al campo semantico non di condanna o di terrore, bensì di dolcezza malinconica percepita, in ultimo, anche nel senso di comunione armonica col paesaggio e con la natura circostante, quando la riappropriazione di sé porta ad una forte presa di consapevolezza della propria condizione creaturale, rimarcata dall’utilizzo, da parte dell’autore, di un linguaggio breve e carico di significato.

2. Il termine Risvegli, presente nel titolo della lirica, va ad alludere ad una presa di coscienza del poeta dopo l’abbandono in un naufragio esistenziale ove l’esperienza si disfa in essenza, in sensazioni che lo hanno condotto lontano dal proprio essere, in una condizione di non vita e di non morte, in una condizione, cioè, sospesa. Egli riafferra la propria coscienza abbandonata in una dimensione profonda, sconosciuta, e riprende il contatto col reale soffermando lo sguardo sugli elementi naturali che lo circondano (“Mi desto in un bagno/ di care cose consuete”). La luce delle stelle riporta alla coscienza ma, data la presenza al contempo della notte, permane il senso di inquietudine e di timore riconducibili all’esperienza di trincea del poeta.



La “creatura” atterrita, spaventata dalla propria dimensione di finitezza e dalla propria piccolezza, scopre la vita, scopre lo scorrere del tempo, delle nuvole che si fanno e che svaniscono, che sono come l’uomo che, nello scoprire la propria dimensione di essere vivente, “sbarra gli occhi/ e accoglie/ gocciole di stelle/ e la pianura muta”. Ci si rende conto di come la natura, secondo una tradizione dapprima leopardiana e poi simbolista, diviene fondamentale per la ricerca esistenziale del poeta e per la presa di conoscenza della propria identità, la quale viene esplicitata negli ultimi due versi: “E si sente/ riavere”.

Un risveglio, appunto, proprio da quella condizione di sonnambulismo e sospensione dichiarata nei primi versi. 

3. “L’epoca fonda/ fuori di me” della prima strofa allude dunque ad un disperdersi e un disfarsi dell’autore in una dimensione altra rispetto a quella presente, in una condizione di profonda interiorità che annulla analogicamente l’io individuale e l’io cosciente in una condizione assolutizzante che lo avvicina a vite altre, a quelle di tutti coloro che la vita, in realtà, l’hanno persa, in una condizione che non è esistenza e non è non-esistenza, non è morte: “Sono lontano colla mia memoria/ dietro a quelle vite perse”. È una condizione priva di luce e priva di buio; privata del tempo, la memoria si blocca in un presente obliquo e silenzioso in cui l’istante è eterno, in cui non vi è altro che un vuoto incerto: “Ogni mio momento/ io l’ho vissuto/ un’altra volta”.

4. “Mariano, il 29 giugno 1916”. Sottostante all’annullarsi del tempo, ecco la guerra. Lo spazio guerresco viene evocato da un termine ben preciso, quello di “creatura”. L’esperienza di soldato degrada l’umano ad una condizione primigenia e animale, ad una condizione di degrado e violenza quasi inconsapevole. Il non vedere, la condizione di cecità descritta all’inizio della lirica, tanto assomiglia al silenzio turbato e pauroso del soldato in trincea. Rimarca il senso dell’attesa, sia essa di bombardamenti, dei combattimenti, quanto più esplicitamente della morte stessa. Lo smarrimento potrebbe considerarsi anche quale via di fuga da quel presente così drammatico in una condizione altra, che annulla l’attuale tragico permettendo per un attimo di riallacciarsi alle vite che sono state, creando corrispondenze con tutto ciò che è stato altro da sé.

Ma è la condizione primigenia di un attimo, la sospensione è evanescente, il tempo si ricompone, e quelle vite rese eterne dalla condizione sospesa divengono parte di una dimensione ben precisa, quella della “memoria”, la quale con ferreo battito scandisce le ore dell’essere vivente e ridona, nella mente del poeta, un passato a quei volti dispersi nel tempo interiore ungarettiano: “mi rammento/ di qualche amico/ morto”.

5. “Ma Dio cos’è?”: la domanda segue lo scorrere del pensiero del poeta dopo l’avvenuta presa di coscienza, quando, cioè, la riappropriazione del tempo definisce nuovamente la condizione esistenziale precaria delle “nuvole” e, quindi, dell’essere vivente. L’urgenza della questione è data dall’isolamento del verso, dalla domanda diretta, smarrita, leopardiana: è il dramma del pastore errante, è il dramma dell’essere vivente, che cos’è Dio, cos’è cioè questo eterno che sovrasta ogni essere, cos’è questo infinito che preme?

In Ungaretti la propria inconsistenza, il proprio essere creatura, i propri confini si contrappongono idealmente ad un eterno privo di linee, e la condizione particolare del poeta diviene archetipo, diviene elemento impersonale; non v’è più un io unico, l’io appartiene a tutti gli esseri finiti, c’è una fusione d’identità corrispondente ad ogni creatura che inizia e che finisce. Tale finitezza schiaccia, “atterrisce” la creatura che nella sua piccolezza è stordita dalla profondità della notte, del cielo stellato che ricade in “gocciole” sull’individuo.

Il silenzio, il mutismo sono condizioni tipiche della natura, ove Ungaretti, riallacciandosi alla tradizione leopardiana, antropomorfizza la pianura facendola divenire “muta”, e per la quale il suo quesito rimane irrisolto.

E, tuttavia, la condizione altra da sé di infinito non è totale, l’inizio e la fine della lirica vengono a conferma di ciò: attraverso l’abbandono in quel nulla indefinito privo di confini, pare quasi che l’autore voglia provare egli stesso a rispondere alla questione. Quel “Dio” cui egli fa riferimento, quell’infinito leopardiano, toccano con mano poetica il naufragio “nell’epoca fonda”, in quel nulla “fuori di me” che non è definito da alcun tipo di confine. È un attimo, svanisce, ci si riappropria attraverso le nuvole e le stelle e la pianura della propria identità, della propria condizione vivente, contrapposta a quella assente dei compagni morti. Ma la perdita poetica dell’io nell’io d’ogni cosa assomiglia troppo a quell’infinito sovrastante, lo tocca con mano così come prima di lui Leopardi, così come ogni “creatura atterrita”. E, dopo aver percepito attraverso la parola poetica l’oblio nel dolce naufragio dell’infinito che è dentro e fuori sé, il poeta “si sente/ riavere”. 

6. Dal punto di vista formale, la lirica si compone di ventisei versi divisi in sette strofe di varia lunghezza; peculiare la scelta da parte di Ungaretti di contrapporre strofe più lunghe a strofe composte di uno o due soli versi, elemento che certo va a sottolineare e a caricare tali versi di un significato particolare. Analizzando in prima istanza le strofe, particolare è la scelta lessicale compiuta dall’autore il quale isola, ponendoli a fine verso, termini quali “momento”, “memoria”, “dolcemente” e “rammento” che paiono sbilanciarsi al di fuori della struttura strofica del componimento in maniera tale da risaltare all’occhio e alla mente del lettore, il quale viene dunque invaso da una certa sensazione di smarrimento interiore dolce e malinconico che pervade l’intera lirica e che ne compone il senso più profondo.

Fondamentale, tuttavia, l’alternarsi a tali immagini di immagini concrete di morte e anche d’attenzione disperata a ciò che attornia il soggetto, quasi a indicare quell’attaccamento alla vita espresso dal poeta stesso in altre liriche (si pensi a Veglie): “vite perse”, “amico morto”. Oscurità del nulla, dunque, della morte, contrapposti a “occhi attenti”, carichi d’ansia, d’attaccamento al reale, laddove il reale stesso contiene in sé la minaccia di annullamento, si pensi in tal caso all’espressione “occhi sbarrati”, caratteristici d’entrambi gli esseri viventi sorpresi e atterriti ma anche dei soldati uccisi, colti d’improvviso da una pallottola nemica.

Fondamentale il riferimento all’interrogativo esistenziale e al verso finale in cui la riappropriazione di sé è ormai completa, diviene consapevole e va a contrapporsi, non solo dal punto di vista semantico ma anche formale – si vedano i quattro versi della prima strofa contrapposti ai due dell’ultima –, alla perdita nell’inconsistenza e nell’assenza presenti ad inizio lirica. 

7. L’esperienza poetica ungarettiana è, certo, fortemente caratterizzata dall’esperienza di guerra. Se il primo conflitto mondiale fu vissuto in maniera ambigua e contraddittoria da parte degli intellettuali italiani, l’esperienza al fronte diede voce a quelle che erano le realtà e le crudezze quotidiane della lotta. Si pensi alla riflessione poetica ungarettiana, la quale distrugge il verso tradizionale laddove non era certo più possibile esprimere la modernità e l’efferatezza dei combattimenti in forme altre da quelle che gli permisero, invece, di dar voce ai barlumi di essenza e di speranza e, in ultimo, di vita, in un contesto composto di corpi macerati e puzzo di morte. La scrittura ungarettiana, infatti, rischiara d’improvvisi momenti di lume tale contesto. In ciò egli va a contrapporsi ad altri poeti di guerra, si pensi in primo luogo a Rebora, il quale descrive la propria esperienza di soldato in maniera cruda, corporale, sofferente. In Rebora, cioè, dalla parola poetica non viene a sprigionarsi alcuna essenza, alcun barlume che possa riscattare per un attimo quella condizione atroce dell’esistenza umana condannata alla trincea che invece è riscontrabile in Ungaretti.

E, tuttavia, l’esperienza di guerra corrode l’identità, annulla l’individuo. I soldati al fronte sono vittime senza volto, senza appartenenza, annullano la propria essenza in nome dello scontro, per un nemico evanescente. Masse informi di corpi morti rappresentano il destino d’intere generazioni di giovani che pure, nel contesto primo novecentesco, furono talvolta piuttosto entusiasti d’appartenere a quello che veniva avvertito come un avvenimento necessario alla rinascita e alla rigenerazione della civiltà. La guerra, invece, ben presto cominciò a mostrare la propria disumana smorfia, a rendere l’uomo verme, bestia, creatura.

Eppure, dopo notti trascorse “buttato” accanto a corpi di compagni morti, come in Veglia, la condizione di buio viene in Ungaretti rischiarata da certi momenti sospesi, da certe albe che si pongono nel mezzo di un sonno informe, oscillante, onirico. È in questi attimi di abbandono docile e malinconico che Ungaretti s’“attacca” alle rivelazioni più profonde dell’essere, della vita. Non il proprio destino, ma il destino d’ogni uomo viene toccato con mano nei miraggi e nei naufragi permessi da fughe rapsodiche nell’eterno, in una condizione di profondità che permette di fugare il tempo presente di prigionia e orrore per un momento e, per un momento ancora, d’abbandonarsi alla più completa libertà interiore.

Il poeta è capace di “tornare alla luce” coi suoi canti, come scrive egli stesso ne Il Porto Sepolto. La parola poetica permette il “risveglio”, la rinascita; essa, cioè, conduce alla riappropriazione di quella coscienza perduta nell’agglomerato informe dell’annullamento guerresco, realizzando il compimento di un vero e proprio atto di consapevolezza.

Ci si ricongiunge dunque col passato, col presente, con ogni cosa. La ricomposizione è possibile, la solitudine della trincea si perde nella dimensione della nostalgia, l’incontro, il fondersi con l’altro, col morto, con le stelle, con la pianura, permettono l’incontro col sé disperso e disperato.

Il corpo maciullato si ricompone, le ferite possono guarire. È questo il barlume di speranza ungarettiana che, con tanta forza, traspare da quelle parole brevi e quei suoi versi spezzati, creando simmetrie con un’umanità profonda e nascosta, ma ben presente, in ogni tempo.  

Annamaria Elia

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