«La sceneggiatura non è stata cambiata per rispecchiare i tempi, sono i tempi ad essere cambiati per rispecchiare la sceneggiatura»

: con queste parole Aaron Sorkin ha presentato il suo Il processo ai Chicago 7 (The Trial of the Chicago 7) ed è difficile trovare parole migliori. Arrivato oggi 16 ottobre 2020 su Netflix, il secondo film da regista di Sorkin riesce a parlare dell’America di oggi attraverso una vicenda di oltre 50 anni fa. Come se il tempo non fosse mai passato, come se l’America non fosse cambiata di una virgola nel corso dei decenni. E c’è un altro aspetto da mettere in risalto: i tempi possono anche cambiare, ma la scrittura di Aaron Sorkin su politica, media e cultura non passerà mai di moda. Scopriamo il perché in questa recensione de Il processo ai Chicago 7.



Il processo ai Chicago 7 accende i riflettori su un processo realmente avvenuto nel 1969, quando sette persone vennero accusate dal Governo statunitense di aver causato rivolte di masse nella Convention dei Democratici a Chicago, fino al celebre scontro tra manifestanti e Guardia Nazionale avvenuto il 28 agosto 1968. In quei giorni a Chicago ci furono diverse manifestazioni contro la guerra in Vietnam, una protesta pacifica che si trasformò in violenze e baruffe, spingendo le forze dell’ordine a ricorrere a gas lacrimogeni e manganelli. Attraverso le indagini vennero individuati sette manifestanti – da Tom Hayden (Eddie Redmayne) a Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen), fino a Jerry Rubin (Jeremy Strong) – ma finì sotto processo per motivi politici anche Bobby Seale (Yahya Abdul-Mateen II), unico nero del gruppo e leader dei Black Panthers. Attraverso le testimonianze degli infiltrati nella protesta, si cercò di pilotare il processo verso la condanna, ma le posizioni del giudice Julius Hoffman (Frank Langella) sollevarono grandissimi dubbi sulla regolarità dell’intero processo…



Aaron Sorkin è tra i migliori sceneggiatori in circolazione e Il processo ai Chicago 7 può contare su una scrittura eccezionale, considerando che il progetto è partito ben 13 anni fa. Insomma, ha avuto parecchio tempo e lo ha utilizzato nel migliore dei modi, basti pensare alle numerose minuzie narrative. Il film si basa su tre storie raccontate temporaneamente: il percorso processuale, l’evoluzione della rivolta (come una protesta pacifica si è trasformata in violenti scontri con la polizia) e il rapporto conflittuale tra Tom Hayden e Abbia Hoffman, i due volti di punta dei Chicago Seven. L’analisi del procedimento in tribunale è basata sulle trascrizioni ed è intervallata da flashback dettagliati delle rivolte attraverso rievocazioni e filmati d’archivio. In più, come dicevamo, il dibattito tra i sette imputati sulla strategia difensiva da adottare e sull’atteggiamento da tenere al di fuori del tribunale.



Come dicevamo, il processo era in principio denominato Chicago Eight trial per la presenza di Bobby Seale, leader dei Black Panthers: inizialmente mandato a processo insieme ai Chicago Seven, l’attivista di Dallas fu processato separatamente e condannato per oltraggio alla corte. Sebbene “staccato” dai Sette, il personaggio interpretato dall’ottimo Yahya Abdul-Mateen II è uno dei punti di forza del film: oltre a consentire a Sorkin di prendere una posizione nettamente a favore del Black Lives Matter di oggi, riesce a mettere in risalto un tema delicato come il razzismo. Nonostante le numerose richieste di avere un processo separato, Seale non venne minimamente preso in considerazione dal giudice. E l’afroamericano bersagliò ripetutamente di insulti il giudice Julius Hoffman – un mefistofelico Langella – che lo fece legare e imbavagliare: probabilmente il momento di maggior pathos del film, in particolare dal punto di vista simbolico.

I botta e risposta sono sempre taglienti, anche se forse un po’ troppo “puliti”, e ruba la scena il confronto tra Abbie Hoffman e Tom Hayden, un duello tra il mondo radicale e quello moderato. Il primo vuole avere una grande esposizione mediatica, il secondo invoca la massima discrezione; il fondatore dello Youth International Party deride il giudice insieme al braccio destro Jerry Rubin, mentre l’attivista dem è disposto a mettersi contro i suoi “colleghi” per rispettare le istituzioni; il primo è pronto a tutto, anche allo scontro fisico, il secondo segue fedelmente la legge. Una dicotomia che consente a Sorkin di fare una riflessione sulla sinistra americana, tra Partito Democratico ed estrema sinistra: un confronto tra chi vuole la rivoluzione ad ogni costo e chi punta a cambiare il Paese entrando a fare parte del sistema. Posizioni che sembrano essere inconciliabili, ma in realtà un compromesso si può raggiungere, considerando che entrambi fanno parte della stessa fazione e sono mossi dagli stessi scopi.

Come dicevamo prima, Il processo ai Chicago 7 è soprattutto una riflessione sull’America di oggi. Attraverso un processo avvenuto più di 50 anni fa, Aaron Sorkin spiega perchè oggi la democrazia corre il rischio di essere manipolata per schiacciare il dissenso, in particolare quando il potere cade nelle mani sbagliate. «Credo che le istituzioni della nostra democrazia siano straordinarie ma che in questo momento siano in mano a persone orribili», le parole di Hoffman, interpretato da un meraviglioso Sacha Baron Cohen, alla sua migliore interpretazione di sempre. Il regista newyorkese fa luce sulla natura politica del processo – fortemente voluto dall’amministrazione Nixon e in particolare dal procuratore generale John Mitchell – volto a demonizzare il dissenso.

Il processo ai Chicago 7 vanta un cast stellare e tutti hanno la possibilità di brillare, basti pensare a Michael Keaton – nei panni di Ramsey Clark – che in appena due scene riesce a stregare lo spettatore, oppure a Mark Rylance, che interpreta magnificamente l’avvocato difensore William Kunstler.

Un film importante oggi più che mai, destinato ad essere protagonista ai prossimi Oscar in diverse categorie. Se non ci troviamo di fronte ad un capolavoro, poco ci manca. E Netflix fa centro ancora una volta: dopo Sto pensando di finirla qui, ecco un altro lungometraggio di qualità elevatissima. Senza dimenticare che in pochi sarebbero disposti a investire certe cifre per determinate pellicole…