Una lunga intervista a Trump pubblicata da Bloomberg ieri è stata letta e riletta dagli investitori. Non si tratta solo del fatto che considerino ormai il tycoon più di un candidato e quasi il Presidente “in pectore”. È il contenuto dell’intervista che è impossibile da ignorare. Il cuore del programma economico di Trump è il rimpatrio della manifattura che negli ultimi decenni è stata delocalizzata fuori dai confini americani, in Cina, in India e, in parte, in Europa. Ogni strumento è funzionale al raggiungimento di questo obiettivo.
La prima questione è la sopravvalutazione del dollaro rispetto alla valuta cinese e giapponese. La sopravvalutazione del dollaro, o la sottovalutazione dello yuan e dello yen, pesa sull’industria americana. Il dollaro, quindi, si deve svalutare. Trump ci avvisa di “numeri molto cattivi” che arriveranno nei prossimi dodici mesi. I numeri “molto cattivi” si riferiscono ai dati economici americani che per l’ex Presidente sono colpa di un dollaro troppo forte che colpisce le esportazioni. Il secondo strumento è quello dei dazi con cui gli Stati Uniti vogliono riequilibrare i deficit commerciali; tra i colpevoli di rapporti commerciali ingiusti nei confronti degli Stati Uniti ci sono la Cina, il Giappone, Taiwan, l’India e, ovviamente, anche l’Europa. La massima flessibilità in campo energetico, con la fine dei sussidi alle fonti rinnovabili e intermittenti, è il complemento necessario sia per recuperare competitività, sia per controbilanciare un cambio economico che è chiaramente inflattivo. Le stesse produzioni in America costano molto di più che in Cina o in India. C’è spazio anche per un ulteriore taglio delle tasse e per un abbassamento dei tassi di interesse che in questo programma è impossibile senza costi energetici ai minimi.
Al fondo della questione c’è un cambio di paradigma profondo. La delocalizzazione, la sopravvalutazione del dollaro andavano bene in un mondo “globalizzato”, senza conflitti; in quel mondo gli Stati Uniti e i loro consumatori si godevano lo status di riserva globale del dollaro, e una moneta sopravvalutata, delocalizzando le produzioni. In quel mondo, però, non ci sono le condizioni per una rinascita manifatturiera dell’America; il dollaro è condannato a essere sopravvalutato. Oggi le priorità cambiano e il rimpatrio della manifattura e l’accorciamento delle catene di fornitura diventano il cuore del programma economico. Da questo discendono i dazi e probabilmente anche un ripensamento del ruolo del dollaro diventato un ostacolo alla reindustrializzazione dell’America. Qualsiasi crisi, lo abbiamo visto con l’invasione dell’Ucraina, sposta i risparmi verso Washington a prescindere dalla loro disciplina fiscale e questo danneggia la competitività delle imprese americane.
Il cambio di paradigma degli Stati Uniti, il consumatore globale di ultima istanza, costringe tutti a un ripensamento del proprio modello economico. Quello che è accaduto nel 2014, per esempio, quando l’euro ha potuto svalutarsi contro il dollaro del 30% in tre trimestri non è più pensabile. Se metà del programma per cui Bloomberg ha coniato l’espressione “Trumpenomics” venisse realizzato anche il modello europeo andrebbe in crisi. Non si può nemmeno sperare che Trump sia un errore della storia che verrà corretto, magari, al prossimo giro e che quindi si tratti solo di resistere per quattro anni. L’impressione è che il candidato repubblicano sia in qualche modo portavoce di istanze più profonde e radicate emerse anche sotto la presidenza Biden con l'”Inflation reduction act” e con il continuo aumento della produzione di idrocarburi.
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