Il segnale di ieri mattina è inequivocabile: la Lega si è astenuta su un ordine del giorno del Partito democratico facendo andare il governo in minoranza.
L’argomento erano il patto di stabilità e i bilanci degli enti locali: il Pd proponeva che dal calcolo venissero escluse le spese per gli investimenti. Una richiesta che Silvio Berlusconi ha più volte avanzato ai partner europei e che il Carroccio ha rispolverato in questi giorni dopo la deroga concessa al Comune di Roma dal decreto anticrisi. «Un chiaro segnale al governo», ha esplicitato Roberto Cota, capogruppo leghista alla Camera.
La sua successiva precisazione che «il governo sta facendo bene e noi vogliamo pungolarlo a fare sempre meglio» non toglie nulla alla brutta figura rimediata dall’esecutivo a Montecitorio. E le parole del ministro Giulio Tremonti secondo cui «i rapporti con la Lega sono straordinariamente buoni» non aggiungono niente di nuovo. I padani non faranno cadere il governo, intendono però tenerlo a briglia corta. Perché a loro volta anche Umberto Bossi e i suoi sono tenuti sotto pressione dal Nord.
Non è più il tempo delle rivendicazioni leghiste, nessuno parla più di secessione, di rivolte, di fucili pronti o di nuove marce su Roma. Bravehart è un mito dimenticato. Il Nord, la locomotiva d’Italia, sta frenando sotto i colpi della crisi. L’auto crolla assieme alla produzione industriale, gli uffici del lavoro sono presi d’assalto, le autostrade sono incredibilmente scorrevoli perché le merci non circolano più. Il cosiddetto “popolo delle partite Iva” arranca sotto il tallone degli studi di settore. È un malessere che travalica la Lega, che unisce elettori di destra e sinistra, operai e colletti bianchi, imprenditori e dipendenti.
Dieci mesi fa questo magma ha votato il Popolo delle libertà sperando di avere un peso decisionale più elevato delle briciole lasciate dall’esecutivo di Romano Prodi. Invece è piombata la crisi economica e finanziaria, e con essa una raffica di delusioni. In Alitalia è entrata Air France, e il ruolo degli aeroporti del Nord (non si tratta soltanto di Malpensa e Linate, ma anche del futuro di Torino, Bergamo-Orio, Verona e Venezia-Tessera, terzo scalo italiano) è tutto da disegnare. Artigiani e commercianti hanno chiesto, a buon diritto, la revisione degli studi di settore e si trovano invece un Tremonti granitico. Un crescente movimento trasversale aveva importo il federalismo fiscale come una necessità e una priorità, ricevendo precise garanzie di tempi e contenuti; viceversa il progetto legislativo arranca in Parlamento.
La campagna elettorale è stata vinta anche su questioni come la lotta agli sprechi e alle cattive gestioni contabili delle periferie, ed ecco che il governo (sia chiaro, anche con il voto della Lega) concede al Comune di Roma di sforare per due anni il patto di stabilità. Le amministrazioni locali, anche quelle attente al pareggio del bilancio, sono state penalizzate dal taglio dell’Ici e ora sempre più sindaci chiedono di sforare a loro volta quei vincoli e addirittura di trattenere sul territorio il 20% del gettito Irpef.
La Lega si sente sul collo il fiato di questo elettorato, insofferente ai ritmi della politica. E quando il Carroccio tenta di riprendere visibilità introducendo la tassa sul permesso di soggiorno, il presidente del Consiglio in persona assicura che lui per primo ha detto no alla proposta. Dietro alle tensioni del governo e alla necessità di imporre la fiducia al decreto anticrisi, c’è anche tutta questa insoddisfazione.