Di tutte le parole che sono volate in questi giorni sul caso Tremonti, presunto o reale che sia, le più stonate appartengono a Umberto Bossi. «Per Tremonti non c’è nessun pericolo. Finché sono vivo io, non ce ne saranno», ha detto il leader leghista sabato pomeriggio al termine del vertice di Arcore con Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia. Vediamo il perché della stonatura.
Giulio Tremonti ha presentato una legge finanziaria che è la fotocopia di quella blindata dell’anno scorso, con le stesse cifre aggiornate in base all’inflazione e gli stessi problemi (compreso quello dei pesanti tagli ai fondi delle scuole non statali).
Dodici mesi fa il ministro dell’Economia inventò la formula della finanziaria triennale, in modo tale – si disse – da programmare la spesa pubblica in modo più rigoroso evitando il «mercato delle vacche», cioè la corsa sfrenata all’emendamento per strappare qualche euro in più.
Tremonti ebbe buon gioco a placare gli appetiti di lobby, territori e collegi elettorali: erano i mesi più difficili della crisi, era fallita la Lehman Brothers, si temeva il crollo dei mercati finanziari e delle economie reali, la saldezza degli interventi pubblici è stata una delle chiavi di volta per uscire dalle fasi più drammatiche. La finanziaria passò senza stravolgimenti, i conti dello Stato furono corazzati e in questi mesi l’Italia ha dimostrato di aver saputo affrontare la congiuntura meglio di altri. Ora è diverso. Dal governo a Confindustria, si continua a ripetere che «il peggio è passato» e «si vede l’uscita dal tunnel». L’economia avrebbe bisogno di ossigeno e nuove risorse.
Invece Tremonti resta immobile sulle sue posizioni: finanziaria blindata e tagli. Le richieste di mezzo governo si scontrano con un muro di gomma. In più, a marzo si vota per le regionali: annunciare investimenti pubblici o tagli di tasse (vedi l’Irap) potrebbe aiutare a guadagnare consensi soprattutto nelle regioni dove il distacco dal centrosinistra si è fatto davvero minimo.
Alle pressioni e alle richieste che gli piovono da ogni parte, il ministro dell’Economia risponde che i soldi arriveranno con i proventi dello scudo fiscale, cioè le aliquote che lo stato incasserà dal rientro in Italia dei capitali costituiti all’estero.
Qui sorge il secondo problema. L’utilizzazione di quella mole di denaro (si prevedono cinque miliardi di euro, ma qualcuno azzarda che saranno anche di più) verrà decisa dal ministero di Tremonti, non da Palazzo Chigi. La vera partita, dunque, riguarda la gestione di questi fondi.
Per i ministri e gli altri centri di potere, si prospetta un ulteriore e snervante braccio di ferro con Giulio da Sondrio. Il quale, per soprammercato, negli ultimi mesi ha corretto la sua impostazione economica spostandosi sempre più verso l’economia sociale, culminata nell’elogio del posto fisso che è suonata come una sconfessione del liberismo e della flessibilità che governano le scelte – per esempio – di Brunetta e Sacconi, e addirittura convocando riunioni dell’Aspen Institute per prefigurare un futuro senza Berlusconi.
Nella maggioranza è in corso un braccio di ferro. A Tremonti è già capitato di soccombere in un caso analogo, nel 2004, quando Gianfranco Fini disse a Berlusconi: o io o lui. Il premier insediò al ministero di via XX Settembre Domenico Siniscalco, salvo dover richiamare Tremonti un anno dopo.
Giulio è consapevole della sua forza e sui conti pubblici conduce una battaglia che sa di poter condurre a buon fine. Proprio per questo il suo amico Bossi potrebbe giocargli un brutto tiro.
Tremonti non ha, al momento, bisogno di santi protettori: si difende perfettamente da solo. Tuttavia il Senatùr si sente in dovere di proteggerlo. «Io sono la sua garanzia, non Berlusconi», sembra dire.
Ma il ministero dell’Economia va messo in conto alla Lega o al Pdl? Ministero dell’Interno, dell’Agricoltura, delle Riforme, ora anche quello dell’Economia: e poi la regione Veneto, magari il Piemonte e chissà che altro. Non è che Bossi voglia allargarsi troppo?