C’è un uomo chiave del centrodestra rimasto sottotraccia in tutta la polemica di questi giorni su Giulio Tremonti. Questo leader che ha preferito muoversi dietro le quinte si chiama Gianfranco Fini.
Non ha speso una parola sulla vicenda, né a favore né contro il ministro di cui clamorosamente chiese – e ottenne – la testa nel 2004. Ha lasciato che sulla scena agissero soltanto i primattori Berlusconi, Bossi e appunto Tremonti.

In realtà sul palco era attiva una pattuglia di comprimari poco visibili ma assai efficaci, come l’onorevole Marco Milanese (braccio destro del ministro dell’Economia) e soprattutto Gianni Letta, cui si deve l’idea di comporre i dissidi creando dal nulla la commissione economica del Pdl. Aprire comitati e commissioni era una vecchia e collaudata tattica tutta democristiana per sistemare i contrasti aumentando le poltrone. I dc della prima repubblica facevano buon viso, si accomodavano e preparavano nuovi assalti. Nella Seconda Repubblica il gioco è diverso.

È evidente che nominare Tremonti alla guida di un Comitato per la politica economica del Pdl, composto dai coordinatori del partito e dai capigruppo parlamentari, non significa nulla. O meglio, significa trovare un punto di compromesso immediato per raffreddare gli animi, ma non per affrontare il vero nodo della questione che è la politica economica del governo.

Alcuni commentatori, come Massimo Franco sul “Corriere”, hanno osservato che il caso Tremonti si è concluso senza vincitori né vinti perché nel centrodestra sono tutti condannati a governare assieme. Non sono d’accordo. Un vincitore chiaro è Umberto Bossi. Finora nella squadra di governo il Senatùr ha giocato un ruolo tutto all’attacco, fatto di proposte e polemiche, che gli ha consentito di portare a casa grandi risultati soprattutto in materia di sicurezza e immigrazione: adesso invece veste anche la maglia del regista, del paciere, del grande mediatore; un ruolo redditizio in vista delle regionali in termini di voti e di poltrone pesanti.

 

 

Chiari sconfitti sono ancora una volta i tre coordinatori del Pdl, assenti e ininfluenti nonostante la partecipazione ai vertici e il consueto scambio di dichiarazioni a giornali e Tg.
Silvio Berlusconi ottiene da Tremonti una breccia nella prospettiva di ridurre le tasse e soprattutto la garanzia che i proventi dello scudo fiscale non saranno gestiti in autonomia dal ministero dell’Economia: alla vigilia delle elezioni regionali saranno uno strumento fondamentale.

A sua volta, Tremonti esce pressoché illeso da una brutta situazione in cui lo avevano costretto altri (cioè i colleghi di governo irritati per l’eccessiva rigidità della finanziaria), ma nella quale lui stesso non aveva fatto molto per uscire (con la lettera post-berlusconiana dell’Aspen e l’uscita anti-liberal sul posto fisso).
Il ministro incassa comunque la patente di campione del rigore nei conti pubblici, una carta che potrebbe tornargli buona un domani. In più, con la guida del neonato comitato, ottiene nuovamente un incarico formale nel partito: ne era stato privato con la fusione tra Forza Italia e Alleanza nazionale.

E Fini? Il presidente della Camera si è goduto lo spettacolo in disparte. Di certo non gli sarà spiaciuto l’incrinarsi dei rapporti personali tra il premier e quello che è stato a lungo considerato l’unico ministro davvero irrinunciabile.
Tremonti isolato fa comodo a Fini, perché è un concorrente indebolito nella ipotetica guerra di successione a Berlusconi. E un ostacolo più malleabile nel caso in cui l’ipotetica cordata Fini-Casini-Bankitalia-Confindustria dovesse davvero prendere consistenza.