Attenti a quei due, alla coppia più strana che si sia formata in Parlamento negli ultimi anni. Quei due fanno gli avvocati, uno di fiducia di Silvio Berlusconi, l’altra di Gianfranco Fini: sono Niccolò Ghedini e Giulia Bongiorno. Li rappresentano nelle aule di giustizia (Ghedini in una innumerevole sequela di processi, Bongiorno per ora nelle cause per diffamazione); di entrambi costituiscono i consiglieri più fidati in materia di giustizia, e sono gli esperti che stanno studiando la riforma delle toghe per conto dei leader del Pdl. Dall’accordo che gli avvocati-parlamentari sapranno trovare in queste ore potrebbero dipendere addirittura le sorti della legislatura.
Prima che la Corte Costituzionale si pronunciasse sul Lodo Alfano, molti pronosticavano elezioni anticipate in caso di bocciatura. Il Lodo è stato respinto e la legislatura prosegue. Ma in Berlusconi si è rafforzata la convinzione di essere al centro di una «persecuzione che dura da 15 anni». La politica – è il ragionamento del premier – non può lasciare il Paese in mano a magistrati che non nascondono di fare un uso politico della giustizia, come confermano le parole del Pm antimafia Ingroia a un comizio dell’Italia dei valori.
La riforma della magistratura è dunque tornata di cruciale attualità: una riforma complessiva, condivisa almeno da una parte dell’opposizione (secondo gli auspici del presidente Napolitano), ma che preveda una forma di protezione del premier dagli assalti delle toghe militanti. Berlusconi ha già incassato la disponibilità alla trattativa dall’Udc e una certa attitudine al dialogo anche dal Pd: l’appoggio del governo alla candidatura di Massimo D’Alema quale futuro superministro degli Esteri europeo è ripagata dalle caute aperture dei vertici democratici appena insediati.
Paradossalmente gli ostacoli maggiori insorgono nel centrodestra, cioè da Fini e Bossi. La Lega può essere tacitata con una carta sicura, quella delle candidature alle regionali. La stessa carta che invece irrita il presidente della Camera, convinto che nel Pdl il ruolo dell’ex An sia sempre più marginale. Così, mentre il Senatùr non perde occasione per ripetere che Veneto e Piemonte sono poltrone acquisite al Carroccio, Gasparri e La Russa frenano in attesa di una «soluzione comune complessiva».
In questa partita si intreccia il giro di poltrone che riguarderà il governo se – come pare – alcuni ministri dovessero lasciare per candidarsi (Zaia) o assumere incarichi di partito (Scajola). Berlusconi vorrebbe approfittarne per promuovere Gianni Letta vicepremier, una sorta di amministratore delegato cui affidare la gestione operativa del governo mentre il Cavaliere si dedicherebbe ad architettare i progetti di ampio respiro che l’Italia attende finite le emergenze (Alitalia, crisi economica, rifiuti, terremoto). Ma il salto di Letta indispettisce Lega, ex An e pure berlusconiani come Tremonti.
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Troppi dossier aperti, troppo importanti le questioni sul tavolo, troppo poco il tempo a disposizione. Per questo Berlusconi fa filtrare la minaccia di un colpo di mano: mandare tutti a casa e tornare subito al voto. Gira voce di un documento programmatico che gli uomini del Pdl sono chiamati a firmare o rifiutare in blocco. O con me o contro di me, dice Silvio. Una specie di voto di fiducia interno. E il passaggio decisivo è proprio quel capitolo della riforma della giustizia in mano a Ghedini-Bongiorno a tutela del presidente del consiglio, che dovrebbe prendere la forma di un limite più stringente alla durata dei processi.
Avrà Berlusconi la forza di andare fino in fondo in questa resa dei conti? Correrà il rischio di spaccare il partito fondato sei mesi fa estromettendo i “cattivi”? Sfiderà Napolitano, che mai vorrebbe sciogliere un parlamento dove i numeri garantiscono largamente la governabilità? Ed è sicuro che gli italiani, che non amano essere chiamati troppo spesso a votare, gli resteranno a fianco? Tutte domande aperte.