«Prove di dialogo»: per i giornali è il classico titolo di quando non ci sono grandi notizie oppure si vuole dire e non dire. Due che si parlano, anche se non vanno d’accordo, stanno già dialogando. Se ci provano, vuol dire che le chiacchiere sono ancora tra sordi. Stavolta, tuttavia, «prove di dialogo» è la fotografia dei rapporti tra Pd e Pdl. Che hanno ricominciato a parlarsi, sia pure per interposto giornale.
La statuetta in faccia a Silvio Berlusconi è abbastanza massiccia per fargli cadere due denti e spaccargli il naso, ma non è il maglio che abbatte anni di muro contro muro. A una settimana dall’aggressione di piazza Duomo, i principali fatti che documentano le prove (ma non ancora il dialogo) sono tre: le parole distensive di Berlusconi all’uscita dal San Raffaele, l’ipotesi dell’Udc per regolamentare il legittimo impedimento del premier nei processi, l’intervista al Corriere della Sera di Massimo D’Alema che ha fatto parlare addirittura di «nuovo inciucio» dopo quello – fallito – della Commissione bicamerale del 1997.
Le discussioni maggiori riguardano proprio l’uscita del leader Pd, lo stesso che sei mesi fa, alla vigilia dello scandalo D’Addario, avvertì l’opposizione di «tenersi pronta a scosse» che avrebbero destabilizzato il centrodestra aprendo «scenari imprevedibili». Stavolta invece sdogana il «compromesso necessario» e addirittura spiana la strada a una «leggina ad personam» per fermare i processi a Berlusconi se servisse a ritirare il ddl sul processo breve che «libererebbe centinaia di imputati di reati gravi».
D’Alema puntava a scompaginare il centrodestra, perché ritirare un ddl varato dal Guardasigilli equivale ad ammettere un grave errore. Ma i problemi maggiori se li è ritrovati in casa. Ha dimostrato con i fatti che Bersani è ancora un leader sotto tutela, ha indispettito un fronte che va da Franceschini a Veltroni e ha ridato fiato a Di Pietro. La mossa delinea una situazione in cui si confrontano due schieramenti speculari, composti da un partito maggiore (Pd e Pdl) moderato e riformista, scortato da un partito minore (rispettivamente Idv e Lega) pronto a raccogliere l’elettorato più intransigente.
La diversità è tutta nelle proporzioni: mentre l’asse Pdl-Lega è maggioritario e coeso, quello Pd-Idv è fatto di tensione e concorrenza. A Berlusconi fa comodo che dall’opposizione provengano segnali di distensione. La maggioranza è la prima a beneficiare di un clima più disteso. Resta forte tuttavia la diffidenza nei confronti dell’asse D’Alema-Bersani, vecchia scuola Pci. Solo i prossimi giorni potranno dire se ai segnali seguirà qualche passo concreto.
Intanto va segnalato il comportamento della Lega nel gestire le candidature alle regionali. Dopo l’accordo Berlusconi-Bossi, il Veneto andrà al ministro Luca Zaia. L’altro contendente, Flavio Tosi, ha incassato di malumore la sconfitta ma non ha protestato; anzi è stato lo stesso sindaco di Verona a proporre formalmente Zaia e a pilotare la «nomination» unanime del consiglio nazionale della Liga Veneta.
Benché indispettito, Tosi non ha neppure chiesto contropartite in cambio del passo indietro (a differenza di quanto sta facendo Galan nel Pdl), preferendo incassare un credito personale che prima o poi riscuoterà. Insomma, la Lega si presenta agli elettori come un partito compatto, capace di gestire all’interno i contrasti e non esibire i litigi. Un rinnovato «centralismo democratico» che contrasta nettamente con le tensioni che percorrono il Pdl dal Veneto alla Campania, dal Lazio alla Sicilia. È una carta che in campagna elettorale potrebbe rivelarsi molto importante.