Il capo dello Stato ha invocato una pausa di «riflessione comune» dopo la morte di Eluana Englaro, e l’avrà. E’ il momento in cui la polemica politica e la caccia alle responsabilità lasciano il posto agli interrogativi delle coscienze. La pausa servirà per placare gli animi degli italiani, per far rientrare nei ranghi i parlamentari più esagitati, per mettere a punto la proposta di legge sul testamento biologico che tra 15 giorni approderà a Palazzo Madama. Ma servirà anche per ragionare a mente fredda sulle ultime drammatiche giornate e sulla crisi istituzionale sfiorata.

Nell’opinione pubblica, ne esce indubbiamente rafforzata l’immagine di Silvio Berlusconi. Nel precipitare degli eventi, il premier ha avuto la forza di prendere una posizione chiara e ferma. E’ vero che la legge sul «fine vita» negli scorsi mesi è andata avanti al rallentatore; il governo e il parlamento non hanno impresso quell’accelerazione che la determinazione di Beppino Englaro avrebbe reso opportuna. Ma il capo del governo non si è fatto prendere la mano dalle considerazioni sul passato: c’era un’emergenza, una vita da salvare, un precedente da evitare; ha compattato il governo e ha deciso per il decreto in virtù della responsabilità che la Costituzione gli attribuisce. Una scelta tanto più coraggiosa se si considera che finora, sui temi etici, il Cavaliere aveva lasciato libertà di coscienza.

I laici del Pdl hanno accettato la svolta di Berlusconi; lo stesso ministro Stefania Prestigiacomo, inizialmente contraria a un intervento del governo, in consiglio dei ministri ha votato a favore del decreto. L’unico nel centrodestra a smarcarsi dal leader è stato Gianfranco Fini. Quella del numero uno di Montecitorio è una posizione ambivalente: quando Berlusconi ha attaccato Napolitano per la mancata firma al decreto legge, Fini ha fatto prevalere il profilo istituzionale schierandosi da subito a fianco dell’inquilino del Colle; tuttavia è tornato immediatamente a fare il capo-partito chiudendo la bocca a Gasparri. Irrituale che un presidente della Camera zittisca un capogruppo del Senato. Il duro richiamo di Fini a uno dei suoi colonnelli dà comunque la misura delle condizioni in cui versa Alleanza nazionale.

Sarebbe fuori luogo attribuire a Fini il cinismo di chi, in un frangente così tragico, vuole aggiungere un ulteriore attestato di lealtà costituzionale al proprio curriculum in allontanamento dal Male assoluto e in avvicinamento al Quirinale. Certo che la mossa di Berlusconi ha marcato una differenza tra quella che si potrebbe chiamare la «politica della sostanza» da quella «della forma», la politica dell’azione da quella dei regolamenti.

La pausa servirà allo stesso Napolitano, apparso anch’egli irremovibile custode della lettera della legge, eccessivamente preoccupato – in qualità di presidente del Consiglio superiore della magistratura – di non urtare la sensibilità delle toghe che hanno tracciato il percorso verso la fine di Eluana. «Nessuno ha il monopolio del dolore», ha detto, ed è una considerazione ineccepibile. Ma nessuno ha neppure il monopolio della legalità. Il rapporto con Berlusconi andrà ricucito da entrambe le parti; se ne farà carico Gianni Letta. L’occasione per verificare la ritrovata intesa si presenterà presto: il 19 febbraio il capo dello stato dovrà nominare un giudice costituzionale al posto del presidente Flick, in scadenza di mandato. Il decreto di nomina del presidente della repubblica dev’essere controfirmato dal presidente del consiglio, il quale può negare il proprio assenso per mancanza di requisiti del candidato oppure per ragioni di opportunità. Il nome che circola con maggiore insistenza è quello di Luciano Violante. Sarà un banco di prova interessante.