Strano che un ex democristiano giovane ma di sufficientemente lungo corso come Dario Franceschini liquidi alla stregua di una barzelletta la “boutade” di Silvio Berlusconi sul voto per delega in Parlamento. Strano perché uno come Franceschini dovrebbe sapere che il Cavaliere non parla mai a vanvera, anche quando sembra spararle più grosse di Bertoldo. La vera svolta del Partito democratico avverrà quando i suoi capi accetteranno di scendere sul terreno concreto dei temi sul tappeto, di discutere entrando nel merito delle questioni, lasciando a Di Pietro la demagogia propagandistica.

Berlusconi propone di portare in Parlamento quello che succede in ogni altra assemblea dal condominio in su, cioè che un delegato (nel caso specifico, il capogruppo) voti per tutti quelli che gli mettono in mano un mandato. Da 40 anni in Francia un parlamentare assente per gravi motivi può delegare il voto, e non risulta che Mitterrand o Chirac siano stati investiti dagli insulti riversati sul premier italiano.

Anche l’indispettita replica di Gianfranco Fini sul fatto che bisognerebbe prima cambiare la Costituzione lascia il tempo che trova: negli ultimi anni la Carta ha subito modifiche su modifiche, e anche in modi discutibili. Perfino un suo fedelissimo, il reggente di An Ignazio La Russa, ha dovuto ammettere che in certe regioni italiane il voto di un capogruppo in commissione ha un valore particolare.

Berlusconi non si aspettava una valanga di osanna alla proposta fatta davanti ai gruppi parlamentari del Pdl. Ma questo è il suo modo di fare politica: lui lancia i temi. Mette le sue proposte sul tavolo per vedere, come cantava Jannacci, «l’effetto che fa». C’è da aspettarsi che sul voto parlamentare per delega saranno lanciati fior di sondaggi e che l’argomento non sarà lasciato cadere semplicemente perché Fini dice che «è una proposta impossibile» o dal Pd ripetono lo stanco ritornello del populismo e del rischio dittatura. I tempi della politica sono un tema urgente, l’Italia è l’unico Paese sviluppato dove se vuoi varare una legge rapidamente devi fare un decreto sfidando le accuse di autoritarismo, perché per una legge normale ci vogliono anni.

C’è però un secondo versante della “berlusconata”. Ed è l’ennesimo capitolo del duello a colpi di fioretto con Gianfranco Fini. Sui giornali di ieri i titoli erano tutti per il premier e non per la riforma “anti-pianisti” (voluta fortissimamente dal presidente della Camera) entrata in vigore proprio martedì. Non è un caso che l’idea del voto per delega sia stata lanciata nel giorno in cui a Montecitorio (ma non a Palazzo Madama) diventa impossibile votare per un collega assente. Una riforma che Berlusconi non ha mai visto di buon occhio perché la ritiene un potenziale rischio per la tenuta del governo: e infatti ha invitato i parlamentari pdl a «lavarsi bene le mani e i polpastrelli» prima di votare.

Sempre martedì erano arrivate altre dichiarazioni di Fini, intervistato da El Paìs pochi giorni dopo che Berlusconi aveva parlato con un altro quotidiano spagnolo, El Mundo. Fini aveva negato di essere il delfino di Berlusconi perché «Berlusconi non è un re con un erede al trono, la politica è un’altra cosa». E aveva augurato a Berlusconi di finire al Quirinale, cioè lontano dal governo.

Mentre si avvicina il congresso fondativo del Pdl, sono dunque scintille tra i leader delle due principali componenti del centrodestra. Ai parlamentari Pdl Berlusconi ricordava che il nuovo partito «non dovrà conoscere correnti» e «tutto vorremmo fuorché un partito di nomenklatura»: parole che sembrano fatte su misura per tarpare le ali ai colonnelli di Alleanza nazionale.

Se Fini cerca di smarcarsi da Berlusconi (a ogni decreto legge arriva puntuale la censura del presidente della Camera), il premier lo ammonisce che il titolare del consenso – sempre altissimo – è lui, che lui è in grado di creare dal nulla un ministro o un presidente di regione, come è appena successo in Sardegna. E che la strada verso la leadership non è fatta di fughe in avanti o di lato, ma di fedeltà assoluta.