Citando Erasmo da Rotterdam (unica citazione d’autore del discorso), Silvio Berlusconi ha chiuso ieri il congresso fondativo del Popolo della libertà attribuendosi una «lucida follia». Sabato gliel’aveva appioppata Gianfranco Fini (ieri assente) e il Cavaliere ha fatto buon viso, perché per il resto nell’intervento del premier non c’è stata ombra di risposta alle questioni sollevate nei tre giorni congressuali dal presidente della Camera e da altri interventi: prime fra tutte, le riforme istituzionali, la legge elettorale, il testamento biologico.

Sulle riforme l’acclamato numero uno del Pdl ha fatto cenni rapidi più per criticare un’opposizione «irresponsabile» che per mettere sul tappeto i temi da affrontare. Sulla bioetica, silenzio assoluto. Che va interpretato nella linea che il «lucido folle» ha seguito in questi anni: libertà di coscienza. «La libertà è la nostra religione laica», ha ripetuto anche ieri. E gli ideali di riferimento sono quelli della «Carta dei valori» del Partito popolare europeo.

Forse, nel momento di battezzare un nuovo partito «che sopravviverà ai suoi fondatori», era il caso di rischiare di più. Berlusconi ha preferito la prudenza, evitando di fare una sintesi dei lavori e di prendere posizione su questioni che avrebbero potuto aprire crepe. Ieri l’unica scelta netta è stata quella, antitetica all’auspicio di Fini, di chiudere all’opposizione sulle riforme: «C’è molto da dubitare sulla serietà della nostra controparte», ha detto ricordando che nel 2005 la sinistra fece fallire l’introduzione della «devolution» e un anno fa si oppose all’apertura al dialogo che fu uno dei primi gesti di Berlusconi dopo la vittoria elettorale.

Il leader del centrodestra ha parlato più alla gente che ai politici, più agli elettori (fra poco più di due mesi si svolgono europee e amministrative) che agli analisti interessati ai rapporti di forza. Non ci sono stati colpi d’ala in questo congresso: l’unica novità doveva essere – e lo è stata – il sigillo formale di un’unione che di fatto esisteva già. Ed esisteva non tanto dal dicembre 2007, cioè dalla famosa «domenica del predellino» in uno dei luoghi simbolo della destra, la milanese piazza San Babila, ma dal dicembre 2006, quando oltre due milioni di persone invasero un’altra piazza-simbolo fino ad allora appartenuta alla sinistra: piazza San Giovanni a Roma.

Il congresso del Pdl, insomma, non doveva avviare una fase nuova, ma consacrare ciò che già era stato fatto. Qui sta la vera novità del percorso del centrodestra. Il partito democratico è nato come un’operazione di vertice, con una nomenclatura scelta farraginosamente e secondo regole nuove solo all’apparenza, con un programma all’insegna del «ma anche» (cioè del tutto e niente, come si è visto poi), ma soprattutto con una base elettorale tutta da ricostruire, da motivare, da coinvolgere. Il Pdl invece è stato voluto prima dagli elettori del centrodestra che dai suoi capi, attorno a una leadership chiara e a un programma che rimanda direttamente alla tradizione dei popolari europei. E che da ieri è anche più vicino all’America di Barack Obama, «scippato» a Veltroni: al riferimento fatto sabato da Giulio Tremonti si è aggiunto l’annuncio di Berlusconi che il G8 della Maddalena sarà affiancato da un forum sul clima, come chiesto proprio dal nuovo inquilino della Casa Bianca.

Per certi versi, dunque, è stato un anti-congresso. Anche perché il Pdl sarà un anti-partito. «Non siamo il riflesso di un teorema ideologico», ha detto ieri Berlusconi, come invece erano i partiti della prima repubblica. Il collante non sono «utopie o pensieri astratti» ma «la cultura del fare, i risultati concreti, la realizzazione del programma elettorale». Le sedi del Pdl saranno aperte non tanto a chi la pensa come Berlusconi ma «a tutti quelli che vogliono impegnarsi per il bene comune». Questa del bene comune è un’affermazione importante, che qualifica il Popolo della libertà. A patto che non resti nel campo della «lucida follia».