Primo anno del quarto governo Berlusconi. Il terremoto e la crisi economica impediscono di accendere le candeline sulla torta, esattamente come non si festeggiò a metà del maggio 2002, dodici mesi dopo la precedente vittoria del centrodestra, quando il mondo era oppresso dall’incubo dell’11 settembre e dal pesante clima di guerra. Le emergenze più tragiche continuano ad accompagnare le premiership del Cavaliere.
Ora come allora, Silvio Berlusconi appare in grande attività. Sette anni fa era impegnato a dare sostanza alla «politica del fare», ad applicare quel «contratto con gli italiani» firmato davanti al notaio Bruno Vespa, a organizzare la riforma della pubblica amministrazione e delle procedure per le grandi opere, a detassare le successioni e immaginare una nuova giustizia. Oggi va riconosciuto che i risultati sono più consistenti. Sono stati riformati, sia pure in diversa misura, la scuola, il settore pubblico, il processo civile, il welfare; è caduta l’Ici ed è stato avviato il lungo viaggio parlamentare verso il federalismo fiscale.
Anche le scosse all’economia sono state affrontate con pragmatismo, senza cedere al panico né alla tentazione di adottare misure di facile successo popolare ma poco efficaci. L’Italia sta tenendo la rotta meglio di altri Paesi, il sistema bancario ha resistito, quello produttivo stringe i denti e soffre ma segna punti a favore come il patto Fiat-Chrysler. La crescita della disoccupazione non ha creato tensioni sociali come in Francia. Berlusconi semina ottimismo perché è il suo dovere e anche il suo mestiere, ma non lo fa a buon mercato come sette anni fa. La «politica del fare» non è più soltanto uno slogan, e lo si è visto in questi giorni in Abruzzo.
Il suo successo più solido resta comunque la nascita del Pdl, un partito stabilmente sopra il 40% dei voti, senza il quale in Italia non si governa, proprio come fu la Dc. All’inizio la fusione tra Forza Italia e Alleanza nazionale è sembrata andare a rimorchio del Partito democratico, ma nel tempo si è mostrata più coesa e stabile attorno a un’idea e un’identità meglio definite del collante che unisce ex diessini ed ex margheritini.
Proprio la leadership di questa grande forza popolare ha costretto il centrosinistra ad abbandonare la crociata anti-berlusconiana, scelta testimoniata dalla stretta di mano tra il premier e Dario Franceschini all’Aquila. Quello che nel 2002 erano i girotondini, oggi è il partito Santoro-Di Pietro-Travaglio. E il Cavaliere si guarda bene dal ripetere l’errore dell’«editto bulgaro» che portò alla cacciata di Biagi, Santoro e Luttazzi: «Annozero» porta via voti al Pd, non al Pdl, quindi Santoro resterà in Rai a far danni nel centrosinistra.
Le incognite politiche sono due, entrambe interne al centrodestra: i rapporti tra Berlusconi e Fini e soprattutto tra il Pdl e la Lega. L’ex numero uno di An sembra determinato nell’«operazione smarcamento» e nel mantenere un saldo profilo istituzionale. Il Cavaliere a volte non gradisce, ma questo gioco gli consente di garantire al Pdl un consenso vasto e multiforme, e comunque sono lontani anni luce i tempi delle schermaglie tra Follini e Bossi, o lo stesso Fini e Tremonti.
Anche con la Lega si svolge un «gioco delle parti», che prende toni più accesi alla vigilia della campagna elettorale. Gli scontri sul decreto sicurezza e sulla data del referendum per ora sono avvertimenti, non crepe, ma le ostilità sono state aperte proprio da Berlusconi quando al congresso del Pdl ha annunciato di voler raggiungere il 51%: e il primo bacino di voti da rosicchiare è proprio quello del Carroccio.
Berlusconi non può cedere alla Lega lo scettro di primo partito del Nord, ma non può nemmeno permettersi di innervosire troppo gli alleati padani. Anche per questo il premier sta giocando in prima persona tutte le principali partite. Scelta coraggiosa quanto rischiosa, perché ogni eventuale errore non potrà che essere addebitato a una sola persona. Lui stesso.