«Siamo fondamentali per governare e finché ci siamo noi la democrazia non corre rischi», ha detto ieri Umberto Bossi dal palco di Pontida, edizione numero 25. Sembra un’affermazione lapalissiana, visti i numeri: senza la Lega non c’è maggioranza né governo. Ma l’osservazione di per sé banale acquista peso se detta il giorno dopo che il premier si è scagliato contro i presunti autori di un presunto «complotto eversivo» per scalzarlo da Palazzo Chigi. Ammesso che il complotto ci sia – è il messaggio lanciato da Bossi -, la Lega è garante che Silvio Berlusconi resterà alla guida del governo.

Nelle infinite capriole della storia, bisognerà trovare posto anche a questa. La Lega era sorta contro il sistema. A lungo è stata una forza magari non eversiva, ma con una certa carica rivoluzionaria sì: federalismo, secessione del Nord, Roma ladrona, siamo pronti a sparare, per anni dal Carroccio si sono alzate ventate di polvere da sparo contro il centralismo dello Stato italiano, cioè la struttura stessa della Repubblica. Fu Bossi a far cadere il primo governo Berlusconi e a favorire la svolta che avrebbe portato il centrosinistra al potere nel 1996, l’anno in cui il pontefice della religione celtico-leghista celebrò per la prima volta il rito pagano dell’ampolla: l’acqua raccolta alle sorgenti del Po versata nella laguna di Venezia a unire idealmente tutto il Nord in un vincolo antiromano.

Oggi la Lega continua a coltivare la sua mitologia ma in un contesto totalmente diverso. Ora il Carroccio è un partito di governo, ha messo saldamente piede nelle stanze dei bottoni, dispone di ministri efficaci e molto popolari, a ogni tornata elettorale aumenta i voti e moltiplica le poltrone. Fino a domenica scorsa aveva 200 sindaci: da lunedì sono 363. I presidenti di provincia sono raddoppiati da 6 a 11, e dopo i ballottaggi aumenteranno ancora. I quattro europarlamentari sono diventati 9, mentre il 10,2% rappresenta il miglior risultato di tutti i 25 anni di vita. Così la parabola è completata: da mina vagante la Lega è diventata alleato insostituibile per il governo Berlusconi, e quello che finora ha portato a casa i risultati più importanti, dal federalismo fiscale ai respingimenti, dalle ronde fino alla difesa della produzione agricola italiana.

Da Pontida non sono stati lanciati nuovi traguardi. Significa che la Lega continuerà a essere il partito dell’ordine, della lotta alla clandestinità e alla delinquenza, dell’estraneità ai giochi politici romani. Temi che da soli sono comunque capaci di conquistare fette sempre più larghe di elettorato, come dimostra l’espansione del Carroccio nelle regioni rosse iniziata con le politiche del 2008 e conclamata alle europee. La Lega resta forte al Nord e prende piede al centro perché, spiegano i suoi uomini, è il nuovo partito operaio. È vicino alla gente, si occupa dei problemi reali (non di Noemi o Veronica), si prende la responsabilità di assegnare le poche risorse sociali prima ai cittadini italiani e poi agli altri.

La Lega è nata ed è rimasta una forza autenticamente popolare. Pontida è un luogo di popolo, di bracieri e salamelle, di sudore ed entusiasmi. Ormai il Carroccio è l’unica forza politica in grado di scaldare i cuori delle masse: le feste dell’Unità sono ridotte a ritrovi di nostalgici, i congressi del Pd sembrano seriosi raduni di iscritti a Slowfood (senza nulla togliere agli amanti del mangiar bene) e quelli del Pdl sono convention popolate da managerini in giacca e cravatta. Il radicamento popolare è la forza della Lega. A patto che resti se stessa, e non ceda alle lusinghe del potere romano. Bossi lo sa, tant’è vero che ieri ha tuonato: «Noi non siamo nati per vincere le elezioni ma per conquistare la nostra libertà». Come dire: alla larga dal «teatrino» della politica e legame stretto con gli ideali.