Sono 22 le province e 99 i comuni dove domenica e lunedì si torna a votare: se non ci fosse il referendum, che almeno in teoria richiama alle urne l’intero corpo elettorale, ne sarebbe interessato comunque all’incirca il 20%. Una fetta cospicua.

A votare però ci andranno in pochi, colpa del sole e del mare e soprattutto del fatto che la formula del doppio turno non ha mai appassionato troppo gli italiani. Ai ballottaggi, salvo clamorosi rovesciamenti di fronte, vengono confermati i risultati del primo turno e la gente si chiede perché deve tornare ai seggi per rifare quello che aveva fatto 15 giorni prima. E soprattutto perché deve ballottare per un sindaco e non per un parlamentare o un capo di governo.

Stavolta alla pigrizia si aggiunge la confusione del referendum. Tre schede colorate scritte in burocratese stretto che non avvicinano certo la gente alla politica, anzi contribuiscono a far permanere un senso di nausea che le polemiche a sfondo sessuale cucite addosso a Berlusconi hanno già alimentato abbondantemente. Il quorum non verrà raggiunto e il disinteresse contribuirà ad assottigliare l’affluenza anche ai ballottaggi, nonostante l’impegno profuso da gran parte del mondo politico a spiegare che si può votare per il sindaco e contemporaneamente rifiutare la scheda referendaria.

L’astensionismo diventa così la grande incognita dei ballottaggi di domenica. La prima variabile in gioco sarà la capacità dei vari partiti di mobilitare il proprio elettorato. Capacità tutta da verificare, dato che Pd e Pdl sono entrambe formazioni nemmeno lontanamente parenti dei «vecchi» partiti. Sono formazioni «leggere» sia perché hanno poche sezioni, sia perché non hanno alle spalle le ideologie o gli ideali di Dc e Pci: e in certi momenti soltanto le grandi motivazioni sono capaci di schiodare la gente dal proprio piccolo orizzonte.

Avendo chiuso in testa gran parte dei confronti al primo turno, al Pdl basterebbe riportare i propri elettori ai seggi (senza conquistarne di nuovi) per vincere in scioltezza. Un colpo di reni invece serve in città come Bologna e Firenze, dove è in vantaggio il centrosinistra. Discorso speculare per il Pd, che deve rimontare in diverse località ma parte favorito a Bologna e Firenze, simboli del potere locale rosso dove la vittoria non dovrebbe sfuggire anche se l’asse Berlusconi-Bossi è data in rimonta. Analogamente il centrodestra non dovrebbe mancare l’obiettivo Milano, ma Penati è un fondista che non molla.

Milano, Torino, Padova, Venezia, Bologna, Firenze, Ancona: il polso del centro-nord del Paese. Cui si aggiungono Foggia, Brindisi e soprattutto Bari, epicentro del nuovo scandalo sessual-giudiziario che tocca Silvio Berlusconi, e magari anche Ferrara (ballottaggi in comune e provincia), la città natale di Dario Franceschini. È uno spaccato importante. Sarà interessante osservare le capacità di resistere o di rimontare dei due schieramenti.

Enrico Letta, su ilsussidiario.net di ieri, indica Milano e Padova come obiettivi irrinunciabili per evitare al Pd l’etichetta di «partito dell’Appennino». È un indicatore significativo della debolezza democratica: Venezia è data già persa, Torino non pervenuta; Padova stessa è un’incognita assoluta visto che al primo turno Zanonato e Marin erano separati da poche centinaia di voti. Milano invece sarà un banco di prova per la compattezza del centrodestra.

L’ultimo spunto da tenere sott’occhio sarà il risultato dell’Udc. Il partito di Casini ha scelto di stare un po’ di qua un po’ di là, ha fatto accordi a destra e sinistra per accreditarsi come ago della bilancia. Letta, nel Pd, ha fatto del patto con i centristi una delle condizioni irrinunciabili per il futuro del suo partito, mentre nel centrodestra un giorno l’Udc viene blandito e il giorno dopo sbeffeggiato come «Unione delle clientele». Staremo a vedere.