Se il futuro del Partito democratico non fosse una faccenda maledettamente seria, uno dei divertimenti di questa estate sarebbe confrontare le interviste che i leader del Pd si scambiano in vista del congresso d’autunno. Il segretario Dario Franceschini, al Corriere della Sera, rivela che per lui «sinistra è una parola e una storia nobilissima cui sono anche legato». A che cosa si riferisce? Al “Capitale” di Marx? Alle “Lettere dal carcere” di Gramsci? A Lenin, Stalin, Mao, Che Guevara? A Turati e Berlinguer? No, confessa Franceschini: «Da ragazzo ero nella sinistra Dc con Zaccagnini e ricordo convegni in cui si discuteva se considerarci sinistra della Dc o sinistra nella Dc». Dibattiti epocali. Anche gli inglesi sono legati alla sinistra, visto come guidano, come pure i tifosi di Mariolino Corso, “il sinistro di Dio”.

Francesco Rutelli si colloca invece agli antipodi: quella parola non vuole neppure sentirla nominare. «Se il Pd accetta di essere sistematicamente qualificato come “la sinistra”, più ancora che bollito, è fritto», scrive su Europa l’ex leader della Margherita, perché sinistra è sinonimo di «irrevocabile collocazione in minoranza nella società italiana».

Per Claudio Velardi, che fu il più stretto collaboratore del D’Alema premier, «tutti i dirigenti del partito, Massimo in primis, sono maestri a farsi male da soli. Oggi non c’è un leader da contrapporre a Berlusconi. Della leadership del Pd in Italia non frega niente a nessuno, e per quella del Paese dire che Bersani e Franceschini non sono adeguati è un eufemismo». Di contro, Enrico Letta ripete da settimane che «il congresso è l’ultima chance, l’ultima opportunità». Dopodiché, liberi tutti.

Tralasciando le boutade di Grillo e il passato di Ignazio Marino (cacciato, e non dimessosi, dall’istituto di ricerca americano per cui lavorava), colpisce che – a due anni dalla fondazione – ancora non si sia deciso che cos’è e cosa dev’essere il Pd. Tant’è vero che Bersani e Franceschini propongono due modelli alternativi, due idee di partito opposte e inconciliabili, al punto che Veltroni è in dubbio se restare nel partito in caso di vittoria di Bersani.

L’attuale segretario vuole una struttura leggera sul tipo dei democratici Usa, che spinge verso il sistema maggioritario e il bipartitismo, in grado di rappresentare vari interessi e dove gli elettori (attraverso il peso attribuito alle primarie) contano più degli iscritti. Viceversa, l’ex ministro lancia un partito strutturato, che ragiona in termini di coalizione (soprattutto con l’Udc, come ripete da mesi Enrico Letta) e non di alleanze, con un sistema bipolare e non bipartitico, favorevole dunque non all’alternativa secca del maggioritario ma al proporzionale tedesco.

Il Pdl, in una logica di “fair play”, non si è pronunciato a favore o contro nessuno dei due. I leader del centrodestra non si sono schierati né pro né contro. Ma chi preferirebbero vincesse? Franceschini, l’erede di Veltroni, propone un modello assai vicino al Partito della libertà: più opinione che appartenenza, grande vicinanza agli elettori (dove i gazebo sostituiscono le primarie), forte impronta del leader. Bersani incarna invece la tradizione della sinistra italiana e della socialdemocrazia europea, una sorta di “labour” tricolore.

Sotto sotto, dunque, il centrodestra berlusconiano fa il tifo per il segretario in carica. Bersani è un avversario più scomodo, ostico, deciso a riprendersi gli elettori di sinistra spostatisi dall’altra parte (operai e ceti popolari) ed è stato un buon ministro. Franceschini vola sugli slogan di «impegno civile» e «voto mobile», disquisisce (da vecchio dc) di «vecchio schema con la sinistra da una parte e il centro del centrosinistra dall’altra». E ha già portato il Pd a un tracollo elettorale senza precedenti.