Non è stata una grande giornata, quella di ieri, per Silvio Berlusconi. Un accenno di contestazione ai funerali dei sei militari trucidati a Kabul, con Umberto Bossi che ripete il dissenso leghista sulla permanenza delle nostre truppe in Afghanistan. Le regioni che disertano il confronto con il governo sui contenuti della finanziaria. Soprattutto, le ferme parole del cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, che ha chiesto ai politici di essere consapevoli «della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore» che il loro mandato comporta.
Riferimento evidente, anche se implicito, alle polemiche sulla vita privata del premier: e poco importava se, proprio poche ore prima, Giampaolo Tarantini (il procacciatore di fanciulle per qualche serata del Cavaliere) era stato scarcerato dal Gip di Bari.
Tuttavia, è stato soprattutto il pranzo con Gianfranco Fini a fare andare definitivamente storto il lunedì berlusconiano. Nonostante che il premier all’uscita fosse tutto un sorriso e mostrasse il pollice alzato a simboleggiare che era tutto ok, il vertice tra i due co-fondatori del Popolo delle libertà non è andato secondo i suoi auspici. E il silenzio finale di entrambi ne è la riprova. Due ore e mezzo di discussione a casa di Gianni Letta, un’abitazione che già aveva ospitato appuntamenti-chiave per il Cavaliere: nel ’97 il «patto della crostata» con Massimo D’Alema sulle riforme costituzionali (poi mancate); nel 2001 il passaggio di consegne con Giuliano Amato dopo la vittoria elettorale; un anno fa il faccia a faccia con Walter Veltroni su legge elettorale e Alitalia.
Finora casa Letta era stata teatro di mediazioni con i leader dell’opposizione, stavolta invece si sono trovati di fronte i due capi del Pdl. Il che la dice lunga sullo stato dei rapporti nella maggioranza.
L’importante era che Berlusconi e Fini tornassero a parlarsi: questo risultato è stato raggiunto. Colloquio lungo, a volte acceso, con il presidente della Camera che non è arretrato di un millimetro su nessuno dei temi in agenda. Come ha svelato Italo Bocchino, il deputato napoletano promotore della lettera «frondista» firmata dai parlamentari Pdl provenienti da An, restano due visioni diverse del partito, quelle sintetizzate una settimana fa da Berlusconi a «Porta a porta»: movimento «leggero» e organismo strutturato. Su questo aspetto, tutt’altro che secondario, non sono stati compiuti passi avanti.
Fini è stato irremovibile sulle questioni politiche che l’avevano allontanato dalla maggioranza del Pdl, cioè biotestamento e voto agli immigrati. Situazione di stallo anche sulle candidature alle regionali, dove Bossi e Berlusconi finora appaiono come gli unici attori sulla scena. E nulla di fatto nemmeno sul «caso Feltri», cioè la campagna giornalistica contro la terza carica dello stato che ha reagito con una denuncia. Il premier ha ribadito di essere estraneo all’iniziativa del direttore del «Giornale» (l’editoriale di Feltri in effetti l’ha colto di sorpresa e non gli ha certo giovato), ma Fini non si è impietosito.
L’unico vero effetto del vertice è che i due leader del centrodestra torneranno presto a incontrarsi. Sul tappeto il consolidamento del Pdl sul territorio e soprattutto le regole di democrazia interna al partito. Fini ha chiesto un patto di consultazione permanente accompagnato da vertici di maggioranza a scadenze fisse, e ora attende i fatti. Un modo per fare sapere di voler essere trattato almeno alla pari di Umberto Bossi, che ogni lunedì sera concorda con Berlusconi le strategie del centrodestra durante le cene ad Arcore.
Così Fini assomiglia sempre di più al Casini, se non al Follini, della legislatura 2001-1006. E se volesse soltanto prendere tempo fino al pronunciamento della Consulta sul lodo Alfano?