Da salvatore della patria democratica a oggetto misterioso: quant’è strana la parabola di Pier Luigi Bersani, terzo segretario del Pd in due anni di vita, manco fosse una legislatura della prima repubblica dove i governi duravano in media 11 mesi.
Il segretario che nelle promesse e nelle speranze doveva raddrizzare le sorti di un partito vacillante si ritrova invece (dopo nemmeno tre mesi di leadership, magari non instabile come i suoi predecessori ma sicuramente incerto e confuso) impaniato in una matassa ancora inestricabile.



Eletto dalle primarie il 25 ottobre, insediato ufficialmente il 7 novembre: qual è il suo bilancio in questi 80 giorni? I conti tendono al rosso e il colore non è una questione di nostalgia. È vero che la litigiosità interna è diminuita rispetto al passato. Non c’è più il fuoco amico, specialità nella quale la sinistra eccelle e in cui si era esercitata con successo (fortunatamente per il centrodestra) verso Franceschini e Veltroni. Bersani invece non si discute. Non è un successo da poco. Altro punto a suo favore è il tentativo, ancora iniziale, di prendere le distanze da Di Pietro. Le ipotesi di riforme, il no-Berlusconi day, le alleanze per le regionali, perfino il ricordo di Craxi: il Pd sta assumendo un profilo autonomo dal giustizialismo dell’ex magistrato. I sondaggi sembrano premiare il nuovo posizionamento. Ma le luci finiscono qui, mentre le ombre si allargano.



I democratici hanno perso per strada personaggi importanti a cominciare da Rutelli e dal suo gruppo di riformisti di centro (Cacciari, Dellai, la Lanzillotta, Calearo) pronta a federarsi con l’Udc mentre un’altra pattuglia (Lusetti, Carra, Bianchi) è finita direttamente con Casini.
Se non fosse per la presenza di Enrico Letta, Bindi, Marini, Fioroni e Binetti, il Pd sarebbe una riedizione dei Ds, un partito più riformista ma spostato nettamente a sinistra, laicista, nel quale i cattolici democratici hanno solo spazi virtuali.

Bersani non è ancora riuscito a scrollarsi l’immagine di vice-D’Alema. La presenza ingombrante dell’ex premier pesa sul segretario: sono di D’Alema le interviste di maggiore peso, i giudizi che mettono i paletti. Ma soprattutto il leader piacentino mostra gravi incertezze nella gestione delle candidature alle regionali.



Nel Lazio ha accettato l’autocandidatura di una radicale, Emma Bonino, confermando lo sbando dopo il caso Marrazzo. In Puglia altro metodo: le primarie. Dovevano presentarsi gli stessi candidati di cinque anni fa, cioè Vendola e Boccia, come se il tempo si fosse fermato. Ci hanno pensato i magistrati a scombinare le carte infilando il governatore nel tritacarne giudiziario.

In Veneto sono forti le sirene dell’Udc Antonio De Poli, ex assessore di Galan che si candida sperando nei voti democratici. A Venezia città tornano le primarie con tre candidati (l’avvocato Orsoni, il verde Bettin e l’ex socialista Fincato), nessuno dei quali è espressione degli ex Ds. In Calabria l’Udc vuole un suo uomo e il governatore uscente Loiero ha giurato che si presenterà da solo contro il suo attuale partito.
 

 

Bersani è riuscito a rispolverare nientemeno che il «mandato esplorativo», un arnese che sembrava archiviato nella prima repubblica, classico strumento da vecchia politica scongelato nei momenti in cui serve prendere tempo perché non si sa dove sbattere la testa.

Giuliano Ferrara sul Foglio ne fa una questione di origini: «Il Pci non aveva mai dato il potere di decisione politica agli emiliani, gente seria e operosa, capace di costruire modelli sociali e fare quattrini ma inetti nella manovra, nella guerra, nella comunicazione politica». Fatto sta che Bersani blinda l’asse appenninico con candidati democratici dal Piemonte all’Umbria passando per Liguria, Emilia e Toscana; per il resto nebbia.