Ormai è una lotteria legata a fattori imponderabili: un deputato malato, una che deve partorire, un altro che avrà il treno o l’aereo in ritardo. Il voto di martedì 14 appare sempre più come uno strano gioco d’azzardo legato alle assenze, più che alle presenze, dei membri della Camera.
Nelle segreterie dei partiti, e anche al Quirinale, si maneggia il pallottoliere da mattina a sera. La storia politica italiana è piena di svolte determinate da calcoli sbagliati: per esempio, quando Prodi cadde nel 1998 per una fiducia mal conteggiata, o quando Berlusconi l’estate scorsa sottovalutò la minaccia di Fini, convinto che l’ex leader di An non avrebbe avuto i numeri per costituire un gruppo parlamentare autonomo.
Non è un bello spettacolo, mentre la speculazione finanziaria torna a interessarsi dei titoli di stato italiani scuotendo la nostra finanza pubblica, vedere un governo che si avvicina a un voto di fiducia puntellandosi sugli assenti.
D’altra parte, il quadro è abbastanza definito. Berlusconi è convinto di sopravvivere al voto del 14 dicembre: la seconda vittoria parlamentare in meno di tre mesi, dopo la fiducia di fine settembre, gli consentirebbe di trattare un rimpasto, se non un governo-bis, senza le incognite di una crisi al buio.
Il mantra del premier è «il senso di responsabilità», nel cui nome egli è convinto di riuscire a coagulare nuove forze a sostegno del governo dopo aver superato la prova parlamentare. Dunque, non si parla ora di allargamento della maggioranza, ma (eventualmente) soltanto dopo il 15 dicembre.
Per contro, Fini e Casini sono accomunati dall’obiettivo di abbattere Berlusconi per poi ricostituire un «qualcosa di nuovo» ancora indefinito.
Il Fli deve dimostrare quanto vale davvero: finora ha minacciato il governo con la guerriglia istituzionale, ma si è ben guardato dal farlo cadere. Tuttavia questa tattica del «tira e molla», fatta di feroci sparate mediatiche prive di riscontro parlamentare, disorienta l’elettorato.
La caduta di Berlusconi sancirebbe che senza Fli il centrodestra non governa. Perciò Fini ripete che «non faremo ribaltoni»: destituito il premier, si metteranno le basi per una nuova alleanza con Pdl-Lega assieme all’Udc, ma senza la sinistra, forse addirittura con Berlusconi nuovamente premier, ma tenuto costantemente sotto scacco. Analoga è la tattica di Casini: confermare che i centristi sono l’ago della bilancia.
Sono tutte mosse con ampio margine d’azzardo. Ma sullo sfondo di questa azione drammatica restano altri due attori che non vanno dimenticati: Napolitano e i «peones». Il capo dello Stato ha fatto sapere tramite i quirinalisti meglio informati che – in caso di sfiducia a Berlusconi – affiderà un mandato esplorativo a Schifani esattamente come fece nel 2008 con Marini.
Quindi niente elezioni subito (come chiedono Pdl e Lega), ma neppure un governo tecnico che farebbe entrare in gioco la sinistra, e nemmeno un nuovo esecutivo di «centrodestra allargato» che non abbia adeguate garanzie di coesione e durata.
Infine, i parlamentari «semplici», quelli che rischiano di tornare a casa senza pensioni, indennità, soprattutto senza certezza della rielezione. E dunque, ancora più determinati di Napolitano a evitare il voto anticipato.