È ancora troppo presto per sperare in un sondaggio sulla svolta congressuale di Antonio Di Pietro. Ci vorrà ancora qualche giorno per capire se il suo richiamo quasi da manuale scolastico di fisica («basta resistenza, passiamo all’alternanza»: sembra una lezione di teoria dell’elettricità) è stato digerito o no dalla base del partito, ma soprattutto se è in grado di calamitare nuovi consensi fuori dall’Idv in vista delle elezioni regionali ormai imminenti.
Le ultime rilevazioni, che risalgono a metà della settimana scorsa, spiegano almeno in parte la necessità della sterzata. I principali sondaggisti segnalano una tendenza al consolidamento dei blocchi. Sia Crespi sia Mannheimer, per esempio, attribuiscono l’identico peso ai partiti maggiori: 38 per cento al Pdl e 27,5 al Pd.
Molto simile anche la stima dell’Udc (6,7 contro 6,5 per cento). Differenze più sensibili per quanto riguarda la forza elettorale della Lega (all’11 per cento secondo Crespi, record storico, e 9,6 per Ispo) e appunto dell’Italia dei valori (per Crespi è scesa al 6,2 mentre per Mannheimer resta attorno al 7,5).
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Significa che le opposizioni, nel loro complesso, non riescono a crescere. Sono incapaci di intercettare i voti in uscita dal Pdl (sceso di qualcosa e tornato ai livelli precedenti il ferimento di Berlusconi) che restano nella maggioranza, spostandosi verso la Lega. Nel centrosinistra si verifica il fenomeno analogo: movimenti di consensi da un partito all’altro, travasi che non fanno crescere la forza dell’opposizione nel suo complesso.
A modo suo, cioè con un «processo breve» al candidato-imputato De Luca che è stato assolto sul campo e con il rientro nei ranghi di De Magistris, Tonino ha dato la sveglia: accordo con il Pd per andare alla conquista di nuovi territori elettorali. Quello che finora sembrava un accordo tattico in funzione delle regionali è diventato un asse che mira alla vittoria nel 2013.
Resta appunto da capire se i «duri e puri» che hanno sempre visto in Di Pietro il campione dalle mani pulite e dalla lingua ruspante lo seguiranno in questa svolta strategica così lontana dalle origini.
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Il disegno di Tonino è evidente. Di mese in mese, il Pd appare un partito alla ricerca di se stesso, e chissà mai se riuscirà a ritrovarsi. Gli ultimi fatti di Bologna, con il sindaco Delbono costretto a dimettersi per una storiaccia di soldi, sesso e disinvolta gestione del potere, ha assestato un colpo durissimo.
I sondaggi non rilevano un’inversione di tendenza nella triste parabola di Bersani. Sul partito erede del Pci e dei cattolici democratici puntano dunque gli occhi sia Casini sia Di Pietro, con l’obiettivo di indebolire il Pd, uno da posizioni moderate e l’altro da pulpiti giustizialisti (come farà la povera Emma Bonino a difendere la propria storia di radicale garantista avendo alle spalle i voti del partito delle manette?).
Una volta indebolito, il Pd sarà pronto per essere fagocitato. Bersani sembra spalleggiato dal solo D’Alema in questa battaglia su molteplici fronti, interna ed esterna. E non è un bel segno il gran rifiuto di Romano Prodi ad accettare la candidatura a sindaco della sua Bologna. Nessuno vuol dare una mano al povero Bersani.
Sull’altro fronte, gli stessi sondaggi confermano che la fiducia nel governo è stabile attorno al 55 per cento e quella del premier superiore al 60 (lui, anche ieri, ha detto di essere al 68). Il Pdl ha il vero nemico in casa, e si chiama Lega, che almeno in Veneto con tutta probabilità supererà il partito di Berlusconi.