Silvio Berlusconi è tornato a farsi sentire dopo giorni di silenzio pressoché assoluto. Dapprima arrabbiato con i suoi, quindi incredulo davanti alla successione di sentenze tutte sfavorevoli e imbarazzato per il boccone amaro ingoiato al Quirinale, una catena di reazioni che il premier ha affrontato con la bocca cucita. Fino a ieri, quando ha rotto gli indugi convocando i coordinatori del partito. Questa mattina terrà una conferenza stampa con Renata Polverini in cui dovrebbe lanciare la riscossa del centrodestra e per metà marzo ha annunciato una manifestazione nazionale a Roma con tutti i candidati governatori.
Per giorni il Pdl è apparso come un pugile in grave difficoltà sul ring. Pareva che il «decreto interpretativo» fosse il mezzo migliore per togliersi dai guai, grazie anche alla forza con la quale il presidente della Repubblica ha difeso il provvedimento, la cui forma lo stesso Giorgio Napolitano aveva sollecitato. Invece quel testo si è dimostrato poco utile. A Milano la lista Formigoni è stata riammessa dal Tar accogliendo un’istanza presentata prima della pubblicazione del decreto sulla Gazzetta Ufficiale. A Roma il Tar ha apertamente disatteso l’auspicio del Colle dichiarando che in materia elettorale fa testo la legge della regione Lazio. E ieri l’ufficio elettorale di Roma ha respinto le liste Pdl presentate lunedì secondo l’interpretazione estensiva del decreto perché «incomplete».
La via d’uscita è diventata, per il centrodestra, un vicolo sempre più stretto. Fino a ieri, quando l’alternativa è apparsa netta: o proseguire sul sentiero dei ricorsi e controricorsi giudiziari, un cammino stretto e scivoloso che bisogna comunque percorrere, oppure puntare tutto sulla strada maestra della politica. L’ultimo dilemma era vincere la tentazione riemergente di rinviare il voto nel Lazio. Ma uno slittamento avrebbe provocato ulteriore confusione tra gli elettori del centrodestra. E i sondaggi già dicono che il Pdl deve mettersi al lavoro per recuperare il calo di consensi degli ultimi giorni.
Come ha detto il ministro leghista Calderoli, «se fosse per me metterei da parte leggine, ricorsi e cavilli e andrei direttamente al voto nella situazione attuale»: cioè senza Pdl a Roma e provincia e votando soltanto la Polverini come governatore e semmai la lista che porta il suo nome. Un modo per riconoscere il fallimento del decreto interpretativo, nonostante fosse l’unico strumento per «garantire il diritto dei cittadini a votare con la piena partecipazione dei diversi schieramenti politici». Ma soprattutto un modo per rilanciare la campagna elettorale.
D’altra parte, gli argomenti non mancano: per esempio, il dossier preparato da Formigoni sulla disparità di trattamento tra la sua e altre liste fa impressione. Più che scontrarsi sul terreno delle interpretazioni giurisprudenziali, ora Berlusconi (che ieri si è detto vittima di un «sopruso violento») combatterà usando l’argomento che il centrosinistra preferisce evitare il confronto sui fatti e i programmi, perché persiste nella strategia di eliminare l’avversario a tavolino: quando non utilizza le procure politicizzate, ripiega sui burocrati che stiracchiano i regolamenti come gli pare e piace.