Dunque, pare proprio che siamo giunti alla resa dei conti tra le due anime del Pdl. Per la verità, parlare di «anime» appare un po’ eccessivo, un modo di dire troppo spirituale, mentre quella in corso nel partito maggioritario del centrodestra assume i contorni di una battaglia molto terra terra.

Dopo aver incontrato Umberto Bossi a ridosso del voto regionale, ieri Silvio Berlusconi ha pranzato assieme a Gianfranco Fini. È parso un atto dovuto più che un appuntamento di lavoro tra alleati chiamati a rilanciare l’azione del governo di cui sono azionisti di maggioranza.



Il vertice di ieri non è andato bene. Al termine Fini ha taciuto, mentre Berlusconi ha detto di aver «mangiato benissimo». Buon per lui. Sembrava che il faccia a faccia dovesse servire al presidente della Camera per regolare qualche conto in sospeso all’interno del partito.

Un aggiustamento dopo le regionali, dove la Lega ha guadagnato terreno a spese del Pdl, in particolare della componente riconducibile alla vecchia Alleanza nazionale. È invece finita con la minaccia di scissione del gruppo parlamentare, forse preludio di una ben più grave spaccatura nel Pdl.



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Fini imputa a Berlusconi di andare troppo a rimorchio della Lega a scapito della componente della destra storica, che resta pur sempre un socio fondatore del partito unico del centrodestra. Il presidente della Camera lamenta trascuratezza e disinteresse, rivendica il patrimonio della destra italiana che ha contribuito al successo di Berlusconi, protesta per la progressiva marginalizzazione nelle scelte strategiche, mentre Bossi siede ogni lunedì sera alla tavola imbandita di Arcore dove vengono disegnati scenari, strategie, riforme e quant’altro.



Insomma, Fini ingaggia un braccio di ferro. Ma c’è una regola che vale per tutte le contese di questo tipo: bisogna avere almeno qualche possibilità di vincere. Quali «chances» ha Fini? Purtroppo per lui, pochine. Gli ipotetici gruppi parlamentari oggi risulterebbero smilzi. La guerra di logoramento porterebbe, di qui a tre anni (data delle prossime elezioni politiche), alla scomparsa dei finiani: nel 2013 sarebbe ancora Berlusconi il king-maker delle liste e i frondisti di oggi diventerebbero gli espulsi dal partito di domani.

Il presidente di Montecitorio sembra disporre di armi spuntate, al punto che poche ore dopo il pranzo, in piena digestione, il premier ribatte a muso duro al politico che nel 1993 avrebbe visto volentieri in Campidoglio: vuoi fare gruppi autonomi? Bene, allora dimettiti dal vertice della Camera, visto che ti ci trovi grazie alla forza del gruppo parlamentare unico. E, per coerenza, nel 2013 i tuoi fedelissimi dovranno trovarsi un altro partito dove candidarsi.

La tensione è alle stelle nel Pdl, paradossalmente proprio mentre il risultato delle regionali dovrebbe portare una maggiore coesione in vista delle riforme. Per Berlusconi e i coordinatori (tra cui La Russa), la posizione di Fini è «incomprensibile» e genera «profonda amarezza». Ma l’uomo di Montecitorio ribatte che Berlusconi governerà per i prossimi tre anni, non c’è un problema nella tenuta della maggioranza ma soltanto nella strategia.

 

Le distinzioni di Fini andavano bene ai tempi dei dorotei democristiani. Oggi l’elettorato vive di messaggi semplici: da che parte vuole stare Fini? È disposto ad andare fino in fondo nel suo braccio di ferro? Che fine faranno lui e i suoi fedelissimi una volta consumata la rottura con il Cavaliere? Non c’è chiarezza su nessuno di questi interrogativi.

È una partita nella quale, al momento, non si vede uno sbocco positivo per il centrodestra. Tranne che per la Lega, terzo incomodo pronto ad aspettare seduto lungo il fiume, come Mao, di veder passare i cadaveri dei nemici.