Silvio Berlusconi al microfono con l’indice puntato all’ingiù, Gianfranco Fini in piedi nella prima fila della platea con l’indice puntato all’insù, entrambi a muso duro. Queste immagini, che le punte più avanzate della comunicazione (cioè la tv via satellite e internet) hanno integralmente trasmesso in diretta, sintetizzano quella corrida che è stata la direzione nazionale del Pdl. I due fondatori si rimbeccano, si smentiscono, si rampognano.
È stata una vera resa dei conti, uno di quei duelli rusticani da cui escono un vincitore e uno sconfitto. Anche se ha riportato qualche ferita, ha vinto Silvio. Parlano i numeri: il suo documento votato dalla direzione ha ricevuto soltanto 11 voti contrari (i fedelissimi finiani Bocchino, Briguglio, Urso, Perina, Granata, Moffa, Augello, Lamorte, Viespoli, Tatarella, Cursi) con 1 astenuto (l’ex ministro Pisanu) su 172 aventi diritto. Il presidente della Camera è l’allenatore di una squadra di calcio priva di riserve che rappresenta il 6 per cento del Pdl.
Pochino anche per poter parlare di una «seconda anima» del partito.
Fini voleva fare esplodere il dissenso interno, che nei giorni scorsi il premier aveva tentato di mascherare almeno in parte: aveva perfino costretto Maurizio Lupi a fare pace con Italo Bocchino dopo la furibonda lite scoppiata nella trasmissione di Paragone venerdì sera su Raidue.
Ieri, nella relazione introduttiva, Berlusconi non ha esasperato il conflitto. Ha rimarcato i successi del governo (lo fa in ogni occasione pubblica) accompagnati dalla circostanza (questa sì davvero singolare) che il consenso degli italiani non è venuto meno durante la crisi. Ha offerto un secondo congresso del Pdl entro l’anno. Ha negato che il governo sia al traino della Lega (la più pesante delle accuse finiane) citando il numero di ministri e l’assenza di dissensi nell’esecutivo. Un discorso privo di fiammate polemiche.
Ma Fini non è arretrato e sfruttando appieno la ribalta mediatica ha elencato tutte le sue rimostranze facendo divampare il dissidio. Uno strappo in piena regola. Forse pensava che il resto della direzione si sarebbe svolto secondo le tradizionali liturgie politiche, il che gli avrebbe consentito di capitalizzare al massimo il ruolo della vittima.
Viceversa Berlusconi, con una delle reazioni d’impulso che tanto piacciono ai suoi elettori (tipo quella di Vicenza quattro anni fa che rivitalizzò una pericolante campagna elettorale), ha ripreso il microfono ribattendo punto su punto. Tutto questo polverone per rivendicare «luoghi di discussione» per la neonata minoranza interna? Il batti e ribatti è cresciuto fino alla stoccata finale del premier a Fini: se vuoi fare politica, lascia la poltrona istituzionale di Montecitorio. Cosa che il presidente della Camera non farà, perché è l’ultima garanzia di avere una ribalta.
Alle 18, invece della replica del leader, è stata messa ai voti una mozione che considera le polemiche finiane «paradossali e pretestuose», mette al bando le correnti nel Pdl e impegna la minoranza a rispettare le decisioni prese democraticamente negli organi del partito. Berlusconi e i coordinatori possono «assumere ogni iniziativa utile ad assicurare la realizzazione del programma e delle decisioni assunte dagli organi statutari, stabilendo il rispetto delle decisioni votate democraticamente».
«Ogni iniziativa» significa non porre limiti ai provvedimenti che potranno essere adottati verso chi rema contro, compreso chi «espone al pubblico ludibrio come Urso, Raisi e Bocchino».
Che infatti ieri sera si è presentato alle telecamere di «Otto e mezzo» proclamando che «il berlusconismo è finito». Ma il logoramento continua. E intanto Bossi gode.
Sì, perché Bossi, pur restando doverosamente in disparte, è lontano anni luce dal detto «tra moglie e marito, non mettere il dito». Già perché se abbiamo assistito alle "scene da un matrimonio" tra Silvio e Gianfranco, molto è stato a causa del terzo incomodo, dell’amante che ha fatto girare la testa a Berlusconi.
Perché nel volar di piatti nel litigio della coppia-che-scoppia formata da Silvio e Gianfranco, l’Umberto è tutto fuorché estraneo.
Certo i malumori nella coppia si avvertivano da tempo, con Fini vittima della maledizione della presidenza della Camera che ha già mietuto, politicamente parlando, vittime illustri negli anni passati (Pivetti, Casini…) e Berlusconi sempre più "a traino" (questa l’accusa) delle grazie del Senatur, che ha riempito di regali e di attenzioni sempre crescenti. La Lega per il presidente del Consiglio è molto più di un alleato fedele. C’è un’affinità umana di fondo: Bossi è uomo diretto, non convenzionale, e il suo partito è popolare, ha dimostrato di sapere ascoltare i problemi veri della gente e di farsene portavoce.
In tutto questo Fini si è sentito trascurato. Fino allo "schiaffo" morale della bozza di riforme presentata a Napolitano praticamente a sua insaputa. E così, nonostante il tentativo estremo di ricomposizione dell’inizio del pomeriggio (a patto, si badi bene, che fosse l’altro a recedere dalle sue posizioni, cosa puntualmente non avvenuta) è finito con il megalitigio a base di rinfacci per le scelte del passato come solo nella Guerra dei Roses. Il tutto condito da reciproche accuse di infedeltà.
E’ mancata solo una frase, da parte di Fini. Quale? Ma il classico dei classici: «torno da mia madre». Certo Silvio avrebbe detto «Ma vacci pure, e portati anche Urso e Bocchino!». Ma An non c’è più, e dei suoi colonnelli Fini adesso non ha che undici superstiti. Ora, quinidi, la prospettiva è un’altra: quella dei separati in casa. Tappa obbligata, per un divorzio annunciato. E da oggi la vita del presidente della Camera, c’è da crederlo, sarà un bel po’ più complicata….