Finita (per ora) la stagione dei monsoni e delle burrasche politiche, dentro il Pdl è tempo di posizionamenti, smussature, chiarimenti. Il tempo ideale per provare a rompere i cortocircuiti politico-mediatici, provando a leggere con più calma e razionale distacco quel che è accaduto in questi ultimi, intensi mesi di polemiche tra Sfilvio Berlusconi e Gianfranco Fini.
L’elemento che colpisce maggiormente l’opinione pubblica di area pidiellina è legato alla eccessiva spregiudicatezza nella costruzione dell’intera operazione di smarcamento finiana. Quando nel 1990, al Congresso di Rimini dell’MSI, Fini urlava dal palco “noi siamo il fascismo del 2000”, i suoi attuali compagni di viaggio militavano compattamente nelle file dell’area giovanile che guardava risolutamente a Pino Rauti, che proprio vincendo quel congresso avrebbe aperto la breve e fallimentare stagione dello “sfondamento a sinistra” che avrebbe ridotto l’MSI ai suoi minimi storici in termini elettorali.
Uomini di manovra di prima grandezza della galassia finiana, come il romano Andrea Augello e il siciliano Fabio Granata, erano allora i più ascoltati consiglieri del segretario rautiano del Fronte della Gioventù Gianni Alemanno. Identicamente le principali firme intellettuali della Fondazione finiana “Farefuturo” e del Secolo d’Italia.
Come è stato possibile un così clamoroso cambiamento di rotta? Non si può non riconoscere all’ex leader di AN un elemento di necessità e urgenza dietro a quel che a molti è sembrato e ancora sembra come un momento di incomprensibile cambio di passo rispetto alle necessità storiche di un partito ancora tutto da consolidare. Necessità e urgenza determinate dalla quasi totale assenza di quel processo di “circolazione delle élites” su cui un sistema democratico non può non fondarsi.
CLICCA >> QUI SOTTO PER CONTINUARE LA LETTURA DELL’ARTICOLO
Per muoversi entro un’arena bloccata (niente primarie, niente preferenze per le elezioni politiche nazionali, scarsa democrazia interna e dunque nessuna possibilità di ricambio della classe dirigente del partito neppure per linee interne), Fini aveva bisogno di ridisegnare il proprio profilo, differenziandolo il più possibile da quello del leader e dunque arrivando a promuovere un allargamento di offerta politica all’interno del suo partito.
La scelta di Fini è stata tutto sommato l’unica possibile: ridisegnare il proprio profilo culturale per marcare il terreno attraverso una differenza mediaticamente palpabile. Il problema non è però quel che ha fatto (in politica che ci siano battaglie anche cruente tra leader alleati non è certamente una sorpresa e meno che mai uno scandalo), ma come lo ha fatto. La nuova veste intellettuale che si è dato, sfruttando in modo contingente e utilitaristico i suoi antichi nemici, fa leva principalmente sul fronte dei nuovi diritti civili (in favore delle unioni di fatto, degli omosessuali e degli immigrati) e delle regole, tentando al contempo di rafforzare alcuni elementi più tipici del suo percorso, al fine di non rompere con il proprio tradizionale baricentro elettorale, territorialmente limitato al Lazio e alle regioni del Sud.
Si comprendono così le reiterate uscite dal sapore neo risorgimentale, gli attacchi sempre più frequenti contro la riforma istituzionale in senso federale, il richiamo a un’etica repubblicana dal vago retrogusto francese, il ritorno al legalismo che aveva segnato lo sviluppo dell’MSI nel pieno del ciclone di Tangentopoli.
Fini tenta in questo modo di radicarsi ancora di più là dove più forti sono le resistenze al cambiamento. Consolidando però un antico limite del mondo della destra romana fin dall’epoca dell’MSI: quello di pensarsi in modo autoreferenziale, dimenticando di comprendere le ragioni profonde che si muovono in tutto il centro-Nord, area in cui si è ormai sedimentata una diffusa cultura anti centralista che non è riducibile al solo bacino elettorale leghista, ma che risulta ormai ben rappresentata anche all’interno del Pdl e in ampi settori del Partito democratico. Non è un caso che in tutto il Nord siano rimasti fedeli a Fini pochissimi parlamentari, italiani ed europei, mentre il resto degli ex AN lo hanno rapidamente abbandonato.
CLICCA >> QUI SOTTO PER CONTINUARE LA LETTURA DELL’ARTICOLO
Il nuovo Fini, cantore dell’individualismo dei diritti, convive così con il vecchio, convinto difensore delle esigenze del Mezzogiorno. Il primo è più appariscente, più di sinistra secondo i detrattori. Ma è il secondo che appare più difficile da digerire all’interno del centro-destra, perché su molti temi sensibili (dalla riforma dello Stato alla difesa a oltranza del pubblico impiego, fino ai molti temi aperti nell’agenda di riforma del welfare) rischia di rafforzare lo schieramento dei difensori dei ceti garantiti e dei territori assistiti, potenziando in questo modo (e paradossalmente) il proprio nemico pubblico numero uno, ovvero quella Lega Nord rappresentante di punta degli interessi diffusi nei territori maggiormente produttivi.
Di certo, allo stato delle cose, c’è solo un dato: sembra essere cominciata la definitiva resa dei conti con la vecchia linea di frattura destra-sinistra, con cui abbiamo dovuto fare i conti lungo tutto il Novecento. Due termini che non rappresentano più nulla e sulla cui linea di confine ha deciso di collocarsi Fini, aprendo la via ad una inevitabile ridefinizione delle tradizionali categorie politiche e dunque anche dell’attuale configurazione del sistema partitico italiano.