Roberto Calderoli non sarebbe stato tra gli allievi migliori di Konrad Lorenz (ieri da Lucia Annunziata ha paragonato Gianfranco Fini a «un delfino che non spicca mai il volo», comportamento difficile per un animale pinnato), ma sicuramente di politica ci capisce.
Nella «Mezz’ora» di risposte su Raitre, ha lasciato cadere due frasi che dicono assai più di quanto appaia. «I galloni se li deve conquistare sul campo all’interno del Pdl», ha detto riferendosi all’ex presidente di Alleanza nazionale. Poi ha aggiunto: «La peggior cosa con una leadership così forte è prenderla di punta».
Secondo la lezione della Lega, quindi, Fini non è affatto il numero 2 del Pdl e men che meno il successore designato. Non basta aver portato il 30 per cento del peso elettorale nel partito unico del centrodestra: occorre farlo fruttare. Fini invece, fa capire il ministro della Semplificazione normativa, ha voluto un ruolo istituzionale pensando di poter campare di rendita nel partito di cui è stato co-fondatore. Errore fatale.
Oggi Fini si trova seduto su una poltrona che ha portato male a tutti gli ultimi occupanti (Pivetti, Violante, Casini, Bertinotti), svaniti nel nulla al termine del mandato a differenza di chi li aveva preceduti: Scalfaro e Napolitano sono infatti passati da Montecitorio al Quirinale. Evidentemente, nella seconda repubblica la terza carica dello Stato non funziona più da trampolino di lancio ma da traguardo di arrivo.
In aggiunta, dal suo isolato osservatorio Fini ha assistito al progressivo abbandono dei colonnelli, ormai traslocati con Berlusconi. Senza forze vive a presidio della sua quota nel Pdl (le truppe finiane, ridotte al 6 per cento nella direzione nazionale, non vanno più in là di Urso, Bocchino, Ronchi e gli intellettuali di Farefuturo), stretto in un ruolo istituzionale probabilmente senza avvenire, il presidente della Camera ha deciso di giocare il tutto per tutto per mantenere un minimo di voce in capitolo almeno per la scelta del futuro leader.
E qui arriva la seconda osservazione di Calderoli: una personalità carismatica non va presa di punta. Fini avrebbe dovuto rinunciare allo scontro frontale con Berlusconi, alla sfida senza ritorno in diretta televisiva, a favore di una strategia meno plateale ma più realistica. Che poi è la strada imboccata da tempo dalla Lega stessa.
Il Carroccio ha posto sul tavolo degli accordi con Berlusconi pochi punti irrinunciabili: il federalismo, l’immigrazione, la sicurezza. Bossi ha messo uomini di provata fiducia a giocare queste partite. Ha misurato Berlusconi non sul numero di poltrone ma sui risultati di governo: infatti sta cominciando a manifestare insofferenza per i ritardi nell’approvare i decreti attuativi del federalismo fiscale.
Si può essere d’accordo o no con la politica leghista, ma essa è sotto gli occhi di tutti. Si sa che cosa Bossi ha proposto e che cosa ha portato a casa. Ma che cosa ha proposto Fini?
Calderoli dice che una «leadership forte» non va presa di punta. Lui lo sa bene, visto che si ritrova un Bossi come capo. Di questa esperienza, i leghisti faranno tesoro anche sullo scacchiere del dopo-Berlusconi. Il nome sostenuto dai «lumbard» è noto: si chiama Giulio Tremonti. Per il quale lavoreranno dall’esterno del Pdl, ma soprattutto senza mai «prendere di punta» nessuno.