Mancava da un po’ il controcanto di Gianfranco Fini, il suo personale, non quello della sua piccola corte che domenica su sei pagine del Secolo d’Italia ha messo per iscritto che il Pdl attuale è morto anche se non ancora sepolto. Ieri il presidente della Camera ha fatto sentire anche la sua voce prendendo come bersaglio Marcello Dell’Utri, uno dei fedelissimi di Silvio Berlusconi, al quale ha rimproverato l’infelice battuta sull’eroicità dello stalliere mafioso Vittorio Mangano.



Parole che Dell’Utri doveva risparmiarsi ma che erano state archiviate. A distanza di qualche settimana, invece, Fini le rispolvera nell’anniversario dell’uccisione del giudice Borsellino, quasi a voler accomunare nella medesima condanna tanto la mafia quanto il senatore Pdl.

Tuttavia, la fronda finiana ormai è una delle tante all’interno del partito berlusconiano, dove cresce un clima da «si salvi chi può». Si respira aria da fine impero, anche se il governo non cadrà e il premier in agosto troverà qualche escamotage per raddrizzare la baracca. «Ghe pensi mi», aveva promesso un mese fa.



Per ora quell’impegno ha fruttato le dimissioni del ministro Brancher e la fiducia sulla manovra. Nel frattempo si è dovuto dimettere anche il sottosegretario Cosentino in una brutta faccenda di falsi dossier tutta interna al Pdl campano. Dopo aver difeso i suoi uomini allo stremo, Berlusconi ha imboccato la strada di allontanare i chiacchierati, soprattutto quelli che l’opposizione minaccia di sfiduciare con il fattivo sostegno dei finiani.

 

 

Ogni giorno si rincorrono voci su presunti avvisi di garanzia in arrivo, ovviamente «clamorosi». L’inchiesta sulla P3 promette sfracelli, anche se per ora della fantomatica società segreta pseudo-massonica manovrata dal solito Flavio Carboni non c’è traccia di statuto, iscrizioni, finalità eversive. E chiunque sa che in Italia ogni nomina e ogni candidatura è accompagnata da pressioni, raccomandazioni, veleni, ripicche, senza per questo dire che tutto è malaffare, complotto, associazione a delinquere.



 

L’inchiesta non arriverà al presidente del Consiglio, come non l’ha toccato quella barese su Tarantini e le escort. È l’immagine che viene ancora danneggiata, la sua e quella del partito che funziona finché c’è da raccogliere voti sotto l’egida del Cavaliere ma poi frana perché un ministro si fa pagare la casa, un altro approfitta dei privilegi, le liste elettorali si compilano per distribuire favori e saldare conti in sospeso, i «big» gareggiano nell’aprire fondazioni. Almeno Berlusconi desse il segnale di avere chiara la strategia delle riforme, federalismo in testa, mentre ancora naviga a vista.

 

E cresce il suo sospetto verso i collaboratori più stretti, uno in particolare, Giulio Tremonti, che da mesi la sinistra e i maggiori giornali dipingono come il vero premier, quello che regge la barra anti-crisi, e lo lusingano come hanno fatto con Fini ipotizzando la fine di Berlusconi, il governo istituzionale, un premierato di garanzia.