Ferragosto silenzioso e riflessivo per i numeri uno della politica, ma loquace per i numeri due del centrodestra; anzi, verrebbe quasi da dire «numeri uno e mezzo» perché Angelino Alfano e Roberto Maroni, presenti ieri a Palermo alla riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza, sono accreditati tra gli eredi più probabili degli attuali leader di Pdl e Lega. E il peso delle loro parole di ieri è carico anche di questa prospettiva.

I ministri di Giustizia e Interno hanno ribattuto, pur senza nominarlo, al presidente Napolitano. Tra il Quirinale e il governo si è aperta una difficile partita a scacchi: un gioco dove la strategia non può rinunciare alla diplomazia, cioè bisogna saper muovere i pezzi senza esporre i veri obiettivi.

L’esecutivo ha le pedine bianche e muove per primo: infatti da giorni ha fatto partire il tam tam delle elezioni anticipate per uscire dalla palude in cui è impantanato dopo la rottura con Fini. Il Colle, pezzi neri, ha risposto con l’intervista all’«Unità»: secondo la Costituzione, il Parlamento non lo scioglie il premier ma il Capo dello Stato, il quale agirà in tal senso soltanto dopo aver verificato che non ci sia nessuna maggioranza possibile alle Camere.

Questa mossa ha un duplice significato: avvertire Berlusconi che non sarà affatto agevole arrivare al voto in autunno, ma anche mettere in guardia la sinistra (si spiega anche così la scelta di parlare tramite l’«Unità») che governi alternativi devono avere solide basi parlamentari.