Il premier incaricato Mario Monti sarà anche un tecnico, un economista strappato alla Bocconi e imprestato alla cosa pubblica, ma ha imparato subito le liturgie della politica italiana. Accolto come il Salvatore della patria, invocato come la panacea del male finanziario, voluto dalle cancellerie europee più forti, dopo il primo giorno di consultazioni la sua immagine appare quella di un democristiano prima repubblica. Un uomo indubbiamente abile, preparato, con esperienza di navigazione perigliosa, ma impaniato nelle mediazioni, nei veti, nei bracci di ferro.

Da un salvatore della patria ci si sarebbe aspettato decisionismo, polso, tempestività. Se è vero che il lavorio sottotraccia del presidente Giorgio Napolitano era in corso da mesi, se è vero che Monti stava preparando la lista dei ministri dall’estate, se la situazione è davvero al limite del collasso, come mai assistiamo ai bizantinismi delle consultazioni e ai balletti del totoministri? Perché Monti convoca conferenze stampa per dire e non dire, lanciare messaggi, fare mezze ammissioni? Che cosa gli impedisce di prendere in mano la situazione come l’urgenza dei tempi imporrebbe?

I mercati non guardano in faccia nessuno. L’andamento dello spread Btp-Bund, cioè il differenziale di rendimento tra titoli pubblici italiani e tedeschi, non è mutato dalla scorsa settimana. Gli avversari di Berlusconi garantivano che la sua caduta significava un guadagno di cento e oltre punti base: ieri, dopo una fiammata iniziale, Piazza Affari ha ripreso a scendere chiudendo con una perdita del 2 per cento e lo spread ha nuovamente sfiorato la fatidica quota 500. La finanza ha voluto Monti e ora lo tratta come un Berlusconi qualunque.

E lui sta al gioco. Ieri sera, al termine della prima giornata di consultazioni, ha convocato i giornalisti per dire che vorrebbe i politici nel governo ma se non accettano fa lo stesso. Che chiederà sacrifici ma non saranno troppo gravosi. Che capisce l’impazienza dei mercati, ma allo stesso tempo è necessario mitigarla con la razionalità. La scorsa settimana, all’annuncio dell’abbandono di Berlusconi qualche osservatore era giunto a ipotizzare che il nuovo esecutivo avrebbe giurato già domenica sera. 

Siamo a martedì e la lista dei 12 non sarà licenziata prima di domani. La drammaticità della situazione impone rapidità di scelte, ma Monti – con il viatico quirinalizio – ha preferito invece la via della mediazione.

Un punto va a onore del presidente incaricato: quando ha parlato della crisi come opportunità. Come occasione di riforme, di ristrutturazione istituzionale ed economica, di cambiamento. È un’idea qualificante per il suo governo. Ma almeno per il momento, a questo enunciato non è seguito un colpo di reni, uno scatto, quel “quid” mancante che viene giustamente rimproverato a Berlusconi. L’unica sua condizione è quella di durare fino al 2013, di non essere limitato a pochi mesi di emergenza ma contare su un tempo adeguato a tranquillizzare i mercati e mettere in sicurezza le riforme. E arrivare alla scadenza della legislatura, quando saranno da assegnare due poltrone (Palazzo Chigi e Quirinale) con la ragionevole speranza di occuparne una.