Scrive Antonio Di Pietro su Facebook che «prima dobbiamo avere i numeri e poi presentare la mozione di sfiducia». E specifica: «In questo momento non è tanto in discussione la sfiducia del centrosinistra quanto la presa d’atto dello sfaldamento del centrodestra».
Anche il ruspante Tonino frena sui numeri per cacciare Berlusconi, e l’ex pm è uno che con il pallottoliere ci sa fare. Dunque, per l’asse che va da Fini a Vendola passando per Bersani non è ancora il momento di togliere lo champagne dal ghiaccio.
Cade? Non cade? Il destino del governo Berlusconi assomiglia ai petali di una margherita che cadono. Ogni petalo è un deputato del Pdl che abbandona la maggioranza.
Venerdì sera, al rientro dal G20 di Cannes, i maggiorenti del partito avevano presentato il conto al premier: una fiducia a Montecitorio non avrebbe raccolto i 316 voti di maggioranza assoluta. Berlusconi si è impegnato di persona a prendere contatto con ogni «malpancista», uno per uno.
Ieri in una telefonata al convegno nazionale di Azione popolare (la componente che fa capo all’ex finiano Silvano Moffa) ha annunciato che la verifica compiuta garantisce i numeri al governo. E uno dei leader della fronda interna al Pdl, l’ex ministro Claudio Scajola, in un’intervista a SkyTg24 ha confermato che non farà mancare la fiducia.
La prudenza di Di Pietro, diretta soprattutto al segretario Pd Bersani che freme per la sfiducia, confermerebbe dunque che Berlusconi sta ricompattando le file. Se dunque il governo cadrà, ciò non avverrà nei prossimi giorni a meno di altri terremoti in Borsa.
Domani in Parlamento si vota sul rendiconto di bilancio e non sarà quello il terreno di scontro. Evitarne l’approvazione, infatti, non conviene nemmeno all’opposizione: la bocciatura provocherebbe sì l’addio di Berlusconi, ma legherebbe le mani anche a un eventuale governo di emergenza.
Le occasioni di misurare le reciproche forze non mancano. Berlusconi al G20 ha annunciato il voto di fiducia sul maxiemendamento alla legge di stabilità contenente una grossa tranche degli interventi annunciati nella «lettera di intenti» di fine ottobre.
Poi arriveranno gli ispettori dell’Unione europea e del Fondo monetario per «certificare» il rispetto degli impegni presi dal governo con la comunità finanziaria.
L’operazione di «certificazione» internazionale è stata una mossa abile. Essa è apparsa più un’ulteriore garanzia offerta da un Berlusconi sicuro del fatto suo, piuttosto che un controllo imposto da qualche diffidente autorità straniera (com’era in origine). Inoltre, il G20, l’Ue e il Fmi non chiedono misure aggiuntive, ma il rigoroso rispetto e l’applicazione in tempi certi di quanto già garantito dal governo italiano in sede europea.
In sostanza, le decisioni dell’esecutivo vengono prese per buone, in grado di ridurre il debito pubblico e tranquillizzare i mercati finanziari, ma occorrono garanzie sui tempi. Chi dunque abbandonasse il governo ostacolerebbe interventi che i Grandi della terra approvano e attendono, oltre ad accelerare lo scivolamento verso la situazione greca, la cui drammaticità è sotto gli occhi del mondo in queste ore.
Tuttavia, la domanda iniziale resta. Berlusconi cade o non cade? Nonostante le lettere, gli impegni, i maxiemendamenti, il governo non si scrolla di dosso timori, fragilità, diffidenze. Berlusconi è sotto sorveglianza né riesce a dare impressione di ritrovata stabilità. E non ci sono nemmeno più posti liberi da sottosegretario.