Fiato alle trombe, rullo di tamburi, fuochi d’artificio: Silvio Berlusconi abbandona la scena. L’ha promesso al Quirinale, le dimissioni arriveranno dopo l’approvazione del maxiemendamento alla legge di stabilità con una prima tranche di provvedimenti anticrisi. Giorgio Napolitano si fida del Cavaliere come le autorità finanziarie internazionali, cioè zero: se il G20 spedisce in Italia ispettori a settimane alterne, il capo dello stato ha messo nero su bianco il passo indietro del premier sottolineando che aprirà subito le consultazioni. Quindi l’attuale (ex) maggioranza può scordarsi l’immediato ricorso al voto.



È tuttavia un po’ presto per stappare lo spumante. Berlusconi sarà un premier in fase terminale, ma il Caimano non è ancora una pelle da trofeo. Anche se il suo ciclo è sostanzialmente finito, ha ancora qualche freccia da scoccare. Nelle prossime settimane sarà all’opera non più come «dominus» incontrastato, ma piuttosto come un generale che guida le truppe dalle retrovie: sarà uno spettacolo inconsueto e potrebbe riservare sorprese. Inoltre i tempi delle dimissioni non sono certificati: quanto ci vorrà ad approvare il maxiemendamento? Le opposizioni fremono, da Bocchino alla Finocchiaro sono partite le pressioni per calendarizzare il provvedimento. Che peraltro non è ancora uscito dagli uffici legislativi di Palazzo Chigi e del ministero dell’Economia. La crisi di governo non cancella, ma acuisce certi attriti nella maggioranza.



Ma proiettiamoci pure all’indomani delle dimissioni. Dieci giorni fa Casini puntava a un esecutivo di emergenza presieduto da Letta. Ora hanno cambiato idea: vogliono l’allargamento al Pd. Bersani fa sapere che né Alfano né Letta rappresentano la necessaria «discontinuità» con il governo Berlusconi. Di Pietro ha come stella polare il voto anticipato. Fini si rode che i nuovi «traditori» del Pdl siano passati con l’Udc e non con il Fli. È questa la maggioranza capace di sostenere un governo di salute pubblica in grado di approvare i sacrifici che paralizzano Berlusconi?

L’attuale asse Pdl-Lega non regge più. Ha tirato a campare un anno grazie agli ondeggiamenti di Scilipoti, Romano, Moffa. Ma potrà reggere un nuovo esecutivo che vive sulla Carlucci, la Bertolini e Stracquadanio? L’opposizione ieri ha segnato una vittoria, ma la mozione di sfiducia è rimasta una minaccia sullo sfondo. Quello che conta sono i numeri in Parlamento, non le campagne della grande stampa e delle tecnocrazie europee che hanno in antipatia il Cavaliere e in simpatia personaggi privi di legittimazione popolare: il professor Monti è senz’altro autorevolissimo, tuttavia è privo di esperienza di governo pur avendo fatto il commissario europeo (su nomina berlusconiana), incarico prestigioso ma forse non sufficiente per tenere assieme una coalizione così composita e precaria.



Napolitano farà il suo dovere istituzionale di battere tutte le strade per verificare se una nuova maggioranza possa dare vita a un governo di fine legislatura. Ma se Lega e Pdl non muteranno posizione, questo esecutivo è destinato a essere sorretto dai peones che non vogliono perdere stipendio e pensione da parlamentare.

Questo per quanto riguarda i numeri al Senato e alla Camera. Poi c’è il programma. Oltre che la richiesta di dimissioni e la minaccia della sfiducia, sarebbe stato opportuno che ieri Bersani avesse aggiunto: «Garantisco che noi porteremo a compimento tutto quello che l’Europa chiede all’Italia e Berlusconi non è stato, e non sarà, capace di fare». Silenzio anche da Casini, Fini, Di Pietro. Non va dimenticato che il maxiemendamento è soltanto una prima tappa nell’opera di risanamento: le riforme imposte dalla crisi sono tante e dolorose.
La troika Bce-Ue-Fmi ripete da giorni che l’agenda italiana non cambierà se dovesse cambiare il governo. Chi si prenderà questa responsabilità? La detronizzazione di Berlusconi rischia di trasformarsi nell’ennesima operazione gattopardesca: cambiare tutto perché nulla cambi. Se fosse così, la politica verrebbe meno al proprio compito.