La telefonata-killer tra Angela Merkel e Giorgio Napolitano svelata dal Wall Street Journal, ammesso che sia andata proprio così, è il classico segreto di Pulcinella. Quel 20 ottobre il presidente e la cancelliera avranno anche parlato della situazione politica in generale, o magari anche del tempo e del fatto che non ci sono più le mezze stagioni. Fatto sta che il mattino successivo a quella conversazione il Quirinale ha avviato un giro informale – e irrituale – di incontri con i leader dei partiti per capire se avrebbero sostenuto o no un governo alternativo. Questi colloqui spinsero Silvio Berlusconi a presentarsi al vertice di Bruxelles di fine ottobre con la famosa «lettera d’intenti» ricca di buone intenzioni culminate nell’impegno di fare approvare una prima tranche di riforme, compresa la seconda manovra finanziaria, entro fine novembre.
La settimana successiva al vertice si svolse il G20 di Cannes, al termine del quale si scatenò l’ennesima bufera finanziaria sui nostri titoli di stato, la più devastante. Berlusconi diede le dimissioni e il governo Monti nacque in pochi giorni. Evidentemente non spuntava dal nulla. Anzi, secondo il WSJ, era in gestazione da quasi un mese. Peraltro i cronisti americani non sono così sprovveduti da mettere nero su bianco che «la Merkel ha chiesto la testa di Berlusconi», né la cancelliera è talmente ingenua da non utilizzare con il Quirinale la stessa arma sovente usata da Napolitano: quella della «moral suasion».
Il giornale più autorevole del panorama finanziario statunitense, che al retroscena dedica addirittura due pagine, scrive: «La signora Merkel ringraziò il presidente in anticipo per quello che entro i suoi poteri avrebbe potuto fare per promuovere le riforme. Napolitano recepì il messaggio». Il testo è prudente, dice e non dice, ma fa capire molto bene il tenore dei rapporti lungo il rinnovato asse Roma-Berlino. E consente anche al Quirinale di smentire: «Nella telefonata non venne avanzata alcuna richiesta di cambiare il premier». Infatti fu avanzata la richiesta di promuovere le riforme. Ma il messaggio in codice era trasparente.
Eccoci dunque con Monti e le sue fasi di governo. La fase 1, la stangata, non è ancora conclusa perché da Capodanno scatteranno nuovi rincari non decisi dal governo ma di fatto avallati, come quello dei pedaggi autostradali; mentre l’annunciata riforma del catasto sottrarrà altro denaro ai contribuenti. La fase 2 è in cantiere. E saranno tempi lunghi, ben lontani da quel «Fate presto» strillato dal Sole24Ore nei giorni della crisi di governo. In conferenza stampa Monti ha promesso un «piano nazionale di riforme» in 90 giorni. Esse poi dovranno essere ulteriormente messe a punto con i partiti, e si arriverà a primavera inoltrata. Il passaggio parlamentare non sarà breve, vista la portata dei provvedimenti. E chissà se a ottobre, cioè all’inizio della campagna elettorale, i partiti della tecnomaggioranza avranno il coraggio di approvare una svolta così radicale. Tutto ciò, ovviamente, nell’ipotesi che nessuno stacchi prima la spina.
Tutta la fretta di 60 giorni fa è evaporata. Per ora il tecnoesecutivo ha messo in sicurezza i conti con una dolorosa stretta fiscale ma senza intervenire sul versante della spesa pubblica, pensioni a parte. Questi soldi non liberano risorse a beneficio del sistema-Italia ma serviranno soprattutto per pagare gli onerosi interessi sul debito pubblico, e finiranno dunque in buona parte nelle casseforti di chi compra Bot e Btp, ovvero – in larga misura – le banche. Lo spread decennale resta allarmante, mentre cala quello a breve termine: segno che i mercati credono nella capacità italiana di sostenere i propri oneri finanziari nell’immediato, ma dubitano ancora che ciò sia garantito nel lungo periodo.
In tutto questo clima di perdurante incertezza, tutta la responsabilità della crisi sembra addossarsi sull’Italia: anche Monti ha ripetuto che il crollo della nostra economia farebbe crollare l’intero sistema. Intanto l’Europa si gingilla nell’indecisione, Sarkozy prepara una difficilissima corsa alla riconferma all’Eliseo e la Merkel sta a guardare. O meglio, muove le pedine lontano da casa sua, ma non s’azzarda a intervenire a Berlino.