In questi tormentati giorni in cui la politica è appesa ai bunga bunga di Silvio Berlusconi, alle inquisizioni spagnoleggianti della procura milanese e alla sentenza di un gip che deve decidere se mandare il presidente del Consiglio a giudizio immediato per reati infamanti come concussione e prostituzione minorile, tocca assistere anche all’ennesimo rimescolamento di carte con annessi ribaltamenti. È tutto un balletto di dimissioni, elezioni, contorsioni.

Da quest’estate Gianfranco Fini è sotto tiro per la casa di Montecarlo svenduta al cognato; aveva promesso che se ne sarebbe andato davanti alla prova provata che Tulliani ne fosse il proprietario, ma non si è schiodato nemmeno davanti a un documento ufficiale di un primo ministro (sia pure caraibico e dunque «delle banane», almeno per la latitudine adatta alle piantagioni tropicali).

Ieri Fini si è prodotto in un doppio salto mortale con avvitamento: è stato ufficialmente eletto presidente del Fli ma si è subito autosospeso per non mescolare il ruolo politico nel neonato partito e quello istituzionale come numero uno di Montecitorio; e contemporaneamente ha offerto a Berlusconi le dimissioni di entrambi per andare a votare e misurare le rispettive forze non a braccio di ferro, ma nelle urne.

Nelle stesse ore il presidente Napolitano, finora il più strenuo nemico delle elezioni anticipate, ha minacciato proprio di sciogliere il Parlamento se non si abbasseranno i toni dello scontro tra le istituzioni, segnatamente presidenza del Consiglio e ordine giudiziario. Altra clamorosa inversione di rotta, accompagnata da preoccupati interrogativi sulla reale possibilità costituzionale per il Capo dello Stato di interrompere la legislatura con un governo in carica, non dimissionario e dotato di maggioranza parlamentare sia pure risicata.

E assieme alle nuove strategie di Fini e Napolitano, assistiamo anche allo sconcertante spettacolo degli occidentali sinceramente democratici che applaudono quello che hanno sempre ignominiosamente additato come il peggiore dei mali, ovvero un colpo di stato militare (quello egiziano).

Dice Fini: io sono stato eletto anche dai parlamentari di Forza Italia, ma anche Berlusconi ha incamerato i voti dell’ex An. Siamo pari, dunque azzeriamo la situazione, tutti a casa e misuriamoci daccapo; ma siccome il premier è incollato alla poltrona non si dimetterà mai.

A parte che Berlusconi potrebbe ribattere come Lino Banfi «Vai avanti tu che mi vien da ridere», resta la sostanza di una sfida che rappresenta l’ennesimo escamotage per liberarsi di Berlusconi eludendo le vie maestre della sfiducia parlamentare e della sconfitta elettorale.

Ma la convergenza di Fini e Napolitano sul tasto del voto anticipato potrebbe avere una spiegazione comune, cioè l’andamento degli ultimi sondaggi che non sarebbero più così favorevoli al premier, il quale in effetti non li cita più da qualche tempo.

La lunga campagna giudiziar-mediatica sui bunga bunga starebbe facendo effetto sull’elettorato moderato, inducendolo a ingrossare le file dell’astensionismo. Se poi il premier fosse davvero costretto a presentarsi in poche settimane in un’aula di giustizia col marchio disonorevole dello sfrutta-fanciulle (per quanto presunto), si comprende quanto sia tortuosa la strada verso il completamento naturale della legislatura.