Di «decreti milleproroghe» è lastricata la storia del Parlamento. Purtroppo, aggiungiamo. Ma tant’è, il sistema di infarcire un decreto con norme di ogni tipo, insaccare il tutto e blindarlo alle Camere con un voto di fiducia è una prassi sconveniente ma praticata (e tollerata) da tempo, e da governi di ogni colore.

L’ultimo decreto-macedonia varato pochi giorni fa prevede novità nelle materie più disparate: le graduatorie scolastiche dei precari, l’aumento dei biglietti del cinema, il foglio rosa per i motorini, il ritorno della social card, gli sgravi alle banche per Basilea 3, le proroghe al pagamento delle multe per le quote latte, e molto altro ancora.

Impossibile dare torto al Quirinale che, nella lettera in cui solleva dubbi di costituzionalità per il decreto, eccepisce l’eterogeneità del provvedimento. Un’estrema varietà che è sotto gli occhi di tutti. Ma, a differenza che nel passato, stavolta il presidente Napolitano ha bloccato l’iter del decreto. E l’ha fatto in un momento cruciale, cioè alla vigilia della scadenza per la conversione in legge (27 febbraio). Il motivo dell’altolà si spiega così: il Colle non vuole che un decreto sostanzialmente destinato a prorogare una serie di scadenze diventi «una nuova finanziaria». Tale procedura eluderebbe «il vaglio preventivo del Capo dello Stato in sede di emanazione».

Si tratta di una ulteriore, dolorosa stretta nei confronti del governo. Napolitano attanaglia Berlusconi in una morsa. Ogni azione dell’esecutivo è tenuta sotto strettissimo controllo, un vaglio occhiuto e implacabile. E in futuro andrà sempre peggio per il governo. Il presidente lo dice a chiare lettere: «Devo infine avvertire – scrive a conclusione della missiva – che, a fronte di casi analoghi, non potrò d’ora in avanti rinunciare ad avvalermi della facoltà di rinvio, anche alla luce dei rimedi che l’ordinamento prevede nella eventualità della decadenza di un decreto-legge». Insomma, il Cavaliere non si illuda di farla franca invocando la crisi o le emergenze.

La tagliola quirinalizia è scattata a ridosso dell’intervista a un giornale tedesco in cui Napolitano, senza tanti giri di parole, ha invitato Berlusconi a presentarsi davanti ai giudici del caso Ruby avendo dalla sua la garanzia di un processo equo oltre a «validi argomenti» di difesa. Ma soprattutto è giunta una settimana dopo la dura nota in cui la presidenza della Repubblica ha ventilato l’ipotesi di elezioni anticipate.

Osservatori e costituzionalisti si domandavano in che modo il Capo dello Stato avrebbe potuto sciogliere le Camere in assenza di crisi, ma in presenza di un governo dotato di fiducia e di una maggioranza crescente (anche ieri il partito di Fini ha subito duri colpi a vantaggio del Pdl). Uno scioglimento «d’autorità» senza precedenti nella storia repubblicana.

Ora la lettera di Napolitano tende a evidenziare una sorta di incapacità del Parlamento a legiferare (tagliato fuori dalla decretazione d’urgenza) e una impossibilità del presidente a esercitare il vaglio preventivo. Cioè un «insanabile contrasto tra governo e Parlamento» e un’«inerzia nell’attuazione della Costituzione» le quali, secondo la dottrina giuridica prevalente, rappresentano due delle fattispecie che potrebbero legittimare il Quirinale allo scioglimento. Così, la formalissima lettera di Napolitano ai presidenti delle Camere non costituirebbe un semplice monito al governo, ma un passo avanti verso la sua liquidazione.