Se non è una retromarcia quella innestata ieri da Silvio Berlusconi nella capitale italiana dell’automobile, poco ci manca. Partito lancia in resta contro la Libia per non farsi scavalcare da Francia e Inghilterra sullo scenario internazionale, il presidente del Consiglio italiano è stato indotto a più miti consigli dopo i primi giorni dell’operazione «Odissea all’alba». Un’alba che ha moltiplicato i problemi senza risolverne alcuno.

La missione contro Gheddafi si è dimostrata fin da subito un’odissea soprattutto per gli italiani, fornitori di appoggio logistico, e quindi relegati di fatto in una posizione oscura e tutto sommato marginale perché i numeri uno sono apparsi Sarkozy e Cameron, assetati delle risorse energetiche libiche. Quindi, visibilità internazionale quasi zero. A ciò si aggiunge il dramma di Lampedusa, che non è più terra che ospita un centro di accoglienza temporanea, ma una colonia di migliaia di magrebini che contendono gli spazi di vita quotidiana agli abitanti dell’isola, e gli sbarchi sembrano destinati a non fermarsi. Dei problemi legati ai migranti e alla loro assistenza, nessun partner dell’Italia nell’avventura bellica si fa carico.

Poi c’è il fronte più legato alla politica interna. La Lega è sempre stata fredda verso la partecipazione alle incursioni sulla Libia. Bossi non ha mai perso il contatto con la gente, il suo fiuto leggendario per il sentire comune non si è ingannato nemmeno questa volta: il Senatùr aveva capito immediatamente che gli italiani non capivano affatto questa strana guerra. Una missione che non è di pace, che non è bene definita nei contorni strategici, dalla quale la Nato sta lontana e che perfino la Germania guarda con sospetto.

Bombardamenti su un Paese che fino a poche settimane fa sembrava un nostro alleato. Un tentativo di eliminare Gheddafi che era stato accolto come un lungimirante capo di stato e improvvisamente si è trasformato in un dittatore da rovesciare senza tuttavia fare chiarezza su chi mettere al suo posto. E senza garanzie che il dopo-Gheddafi sia più democratico, più libero, e magari anche meno oneroso nella fornitura di gas e petrolio.

Un pasticcio. Così ieri Berlusconi, al termine di una giornata fitta di telefonate con i partner occidentali e con la Russia, ha premuto sul freno. Forse non è un caso che l’abbia fatto a Torino mentre lanciava ufficialmente il candidato sindaco Michele Coppola avendo a fianco Roberto Cota, governatore leghista. Perché il «nuovo» Berlusconi ha sposato quasi completamente le posizioni del Carroccio: prudenza, moderazione, rigoroso rispetto dei limiti fissati dall’Onu (pattugliamento dei cieli per evitare violazioni della «no fly zone», controllo dell’embargo a danno del governo libico e protezione per i civili), cambio di pilota alla guida delle operazioni militari.

Il comando dev’essere della Nato, ha detto Berlusconi con un chiaro intendimento di voler ridimensionare le ambizioni franco-inglesi, mentre il ministro Frattini si è spinto a ipotizzare un comando italiano separato per la gestione delle basi. E poi la garanzia che «i nostri aerei non hanno sparato e non spareranno» ma eseguiranno unicamente l’opera di pattugliamento.

Insomma, il grande interventismo si è ammantato di circospezione. I soliti sondaggi hanno consigliato Berlusconi a non premere sull’acceleratore. È una scelta indubbiamente opportuna e condivisibile, che però ha il sapore di un cambiamento in corsa verso le posizioni di chi da subito aveva predicato cautela. E Bossi, al momento, esce ancora una volta come il vero azionista di maggioranza di questo governo.