I nordafricani sono ammassati su strade e marciapiedi. Si moltiplicano furti e aggressioni, piccoli reati che in una realtà circoscritta inevitabilmente vengono amplificati. I pescatori barricano l’ingresso del porto per impedire l’attracco delle motovedette che hanno soccorso i disperati. Sono in arrivo gli ispettori del ministero della Salute per valutare i rischi di epidemie. Si bruciano cassonetti, alcuni consiglieri comunali si incatenano per protesta.
Non serviva la sfera magica di Biancaneve per prevedere quello che sta accadendo dopo lo scoppio del conflitto in Libia. Ed è una curiosa coincidenza che ciò avvenga proprio nel giorno in cui Silvio Berlusconi si presenta nuovamente in un’aula di tribunale per poi tuffarsi non nel Mediterraneo punteggiato di barconi carichi di profughi, ma nella folla plaudente dei suoi fan accalcati davanti al palazzo di giustizia di Milano. È un bene che il premier dimostri di non voler più evitare i processi, ma a una parte dell’opinione pubblica arriva ancora il messaggio che egli preferisca comunque occuparsi delle sue vicende personali piuttosto che delle urgenze del Paese.
Proprio la debolezza della politica è quello che più sconcerta nella drammatica situazione lampedusana. Il cardinale Angelo Bagnasco, parlando ieri al Consiglio episcopale permanente della Cei, ha auspicato decisioni sagge e di assoluto buon senso: che «si fermino le armi», che «venga preservata l’incolumità e la sicurezza dei cittadini», che si percorra «la giusta e possibile strada della diplomazia», ma anche che «non siano lasciati soli gli abitanti di Lampedusa», obiettivo per il quale «c’è bisogno, oltre che dell’apporto generoso delle singole regioni italiane, anche della convergenza dell’Europa comunitaria».
La crisi si trascina da oltre un mese. Il governo non è riuscito a produrre nessuna azione politica, se non tamponare in qualche modo gli eventi caricando qualche centinaio di tunisini su aerei e navi militari per trasferirli in Sicilia. Ora pare che domani arriveranno cinque navi passeggeri per evacuare Lampedusa, mentre in varie parti d’Italia si piantano tendopoli e si sistemano alla bell’e meglio alcune caserme. Da giorni si tenta di distinguere tra richiedenti asilo (degni di accoglienza) e clandestini (da respingere). E intanto gli sbarchi continuano, l’emergenza si moltiplica e non si intravedono linee d’intervento ma soltanto rappezzi. Gli stranieri si accalcano, chiedono cibo e coperte, i tempi per identificarli saranno lunghissimi e altro tempo e denaro ci vorrà per organizzare le estenuanti operazioni di rimpatrio. Anche la Lega, che mena vanto della propria capacità nel risolvere i problemi legati a clandestinità e ordine pubblico, stavolta appare paralizzata, capace di fare proclami, distinguere, ma non di agire.
Si è detto che l’Italia è intervenuta nel conflitto per difendere i propri legittimi interessi economici in Libia e per avere voce in capitolo in Europa. Questa voce cade però nel deserto: nessuno dei partner occidentali si impietosisce per la nostra penosa situazione, e nessuno finora è riuscito a smuoverli. Senza l’Europa, come ha ricordato anche Bagnasco, noi non riusciremo ad affrontare l’emergenza ma ne verremo travolti. Tuttavia occorre anche la forza di scuotere un continente unito dalla moneta, ma sempre più prigioniero dei rispettivi interessi particolari. Una forza che l’Italia oggi sembra non avere. E le forze residue vengono riservate ai giudici.