Il pallottoliere dice che la Lega Nord ha conquistato un pugno di sindaci di provincia in più e qualche frazione percentuale, ma il dato di fondo è un altro: nelle città in cui il suo voto pesava di più, il Carroccio non è avanzato. Anzi, ha perso colpi. A Milano non dovrebbe raggiungere il 10 per cento. A Bologna ha fallito entrambi gli obiettivi, cioè approdare al ballottaggio e superare il Pdl. A Torino non ha capitalizzato il consenso che appena 12 mesi fa gli aveva consentito di eleggere il governatore regionale: e Roberto Cota si sta muovendo bene alla guida del Piemonte. A Gallarate la Lega ha candidato a sindaco il consigliere di amministrazione Rai Giovanna Bianchi Clerici, che rischia di non andare al ballottaggio contro il candidato del Pdl. Sarebbe clamoroso, visto che Umberto Bossi ha tenuto comizi quasi tutti i giorni nella cittadina del Varesotto.
Che cosa succede al movimento di Umberto Bossi? Ha forse toccato il suo massimo alle regionali dell’anno scorso? Ha esaurito la spinta verso la conquista del Nord? La trasformazione da partito di lotta in partito di governo non sta costando troppo cara agli eredi di Alberto da Giussano? E che cosa capiterà ora all’esecutivo Pdl-Lega? Sono queste le domande su cui bisogna cimentarsi e che dovranno trovare risposte nei prossimi giorni.
I rapporti di alleanza tra i due principali partiti della maggioranza non sono in discussione. Tuttavia da mesi la sintonia tra il Senatùr e il Cavaliere non è più quella degli ultimi anni, quella delle cene del lunedì, dell’asse per emarginare Fini, del patto di ferro sul programma. Il Carroccio ha garantito lealtà al governo in cambio del federalismo (riforma sacrosanta ma con un iter estenuante i cui effetti si misureranno fra qualche anno, non certo in questa e nelle prossime campagne elettorali) e di un ministro dell’Interno che ha meriti indubbi (ha combattuto come nessun altro la criminalità organizzata, ha migliorato la sicurezza di molte città) ma si è mostrato incerto nel governare l’imprevista e massiccia ondata migratoria degli ultimi mesi.
Il campanello d’allarme per la Lega era suonato già un anno fa, ma pochi l’avevano colto perché la conquista di due regioni come Veneto e Piemonte era stato un successo tale da coprire ogni altra valutazione. Tuttavia proprio in Veneto, la regione più «padana» d’Italia, più della Lombardia di Bossi-Maroni-Calderoli-Castelli, si poteva cogliere l’avvisaglia di una possibile crisi. Perché il governatore Zaia era stato eletto senza che la Lega strappasse un voto in più di quelli conquistati due anni prima alle elezioni politiche. Era il primo segnale che il Carroccio aveva raggiunto il tetto dei consensi e difficilmente avrebbe potuto fare meglio di così.
Ora questa tornata amministrativa dice che il voto di protesta, di «lotta», non è venuto meno. È sempre forte, ma non si rivolge più soltanto alla Lega: premia i grillini al Nord che non hanno rosicchiato consenso soltanto a sinistra, e De Magistris (non l’Italia dei valori, che arranca nel resto del Paese) a Napoli, e va a ingrossare le file dell’astensionismo. La Lega nata contro il sistema, addirittura contro l’attuale forma statuale, non appare più la principale interprete del malessere di larghi settori dell’elettorato e non guadagna consensi in virtù dell’azione di governo. Un bel dilemma per il Senatùr.