Se dovessimo prendere la manovra impostata ieri dal governo come termometro della crisi economica italiana dovremmo concludere che non possiamo lamentarci della situazione in cui ci troviamo. Viviamo infatti in un Paese che deve tagliare spese per 47 miliardi di euro, ma può permettersi di farlo fra due anni. Che ritiene di affrontare le pericolose folate in arrivo dalla Grecia aumentando la benzina (un sistema inventato dai governi Dc-Psi) e ritoccando i ticket del pronto soccorso, un provvedimento già previsto dalla legge finanziaria del 2007, cioè dal governo Prodi e dal ministro Padoa-Schioppa.



Un Paese il cui sistema pensionistico si limita a punire le badanti dell’Est che sposano gli italiani più vecchi e danarosi; dove si preferisce non intervenire sui costi della politica; dove l’unico settore degno di liberalizzazione/privatizzazione è la Croce rossa e il solo ordine professionale da abolire è quello dei giornalisti: evidentemente il resto funziona a meraviglia. Stralciato anche il capitolo più atteso e discusso, cioè il nuovo sistema fiscale. Sui ritardi di questa riforma il centrodestra ha poi scaricato gran parte della colpa della recente sconfitta elettorale. Occorrerà altro tempo.



I contenuti della manovra, presentata in bozza da Tremonti, saranno soggetti nei prossimi giorni a ulteriori modifiche. Al momento le vere novità appaiono due, entrambe rubricabili come passi indietro del ministro. La prima è la disponibilità di via XX Settembre ad allentare i vincoli del patto di stabilità che lega le mani agli enti locali virtuosi: una vittoria di Bossi (che però ha dovuto incassare lo stop della riforma fiscale) e un primo segnale del federalismo incipiente.

La seconda è l’introduzione della cosiddetta «spending review», anch’essa un’eredità del povero Padoa-Schioppa, cioè una ricognizione degli sprechi delle amministrazioni statali in modo da apportare non più tagli di spesa lineari ma mirati, in base a un «fabbisogno standard». Anche qui si sente l’eco del nuovo federalismo fiscale che introdurrà i «costi standard» nella gestione della sanità nelle regioni. Proprio ieri su “La Stampa” il sociologo Luca Ricolfi confessava di essere in grado di determinare statisticamente l’ammontare dello spreco pubblico, ma di non sapere indicare da dove cominciare con i tagli. Tremonti avvia un processo indispensabile per il futuro della finanza pubblica italiana, ma si tratta di una misura poco mediatica e priva di riscontro immediato tra i cittadini.



Berlusconi e i ministri si sono detti soddisfatti per il clima di dialogo nel governo. Tremonti non si è inalberato a difesa della sua linea del rigore, ognuno ha strappato qualcosa (evitare le sforbiciate era già un successo), ma ha anche dovuto cedere qualcosa. Si parla di tregua tra il premier e il ministro dopo le tensioni delle ultime settimane sul fisco. Ma si parla anche di nuove frizioni con la Lega, delusa per l’accantonamento almeno momentaneo degli interventi sul fisco e ancora guardinga: la parola d’ordine nel Carroccio è «aspettare i fatti». Dalla bozza al testo finale la strada è molto lunga.

Il punto su cui tutti sono d’accordo è invece il sostanziale rinvio degli interventi più pesanti: un miliardo e mezzo quest’anno, altri cinque e mezzo nel 2012, i restanti 40 nel 2013/14. Significa che la responsabilità di allinearsi ai parametri di finanza pubblica fissati dall’Unione europea ricadrà quasi interamente sul prossimo governo. Cioè, quasi sicuramente, non su Berlusconi.