L’abilità di un politico si misura anche dalla capacità di ribaltare a proprio favore le circostanze negative. Ieri sera a Varese Roberto Maroni si è esibito, con successo, in questo esercizio.
Da mesi è bersagliato dalle accuse del «cerchio magico», ossia i fedelissimi di Umberto Bossi, la pattuglia di guardie del corpo e assistenti personali. L’ex ministro dell’Interno è all’indice perché vorrebbe detronizzare il Senatùr e il capo dei deputati Reguzzoni, farsi un partito suo, dettare alla Lega una propria strategia che comprende la rottura con Silvio Berlusconi e le liturgie romane.
«Dobbiamo investire al Nord lasciando perdere tutto il resto, dobbiamo inseguire il sogno di diventare il primo partito del Nord, e non c’è bisogno di alleanze: per esempio, alle amministrative di primavera la Lega deve mostrare i muscoli e andare da sola»: questa la linea-Maroni di ieri sera.
Il processo all’ex inquilino del Viminale è culminato la scorsa settimana nell’editto bossiano che gli vietava di tenere comizi. La censura è presto rientrata grazie alla solidarietà della base leghista con Maroni. In pochi giorni è stata organizzata una manifestazione a Varese subito trasformata da ritrovo di circoscrizione a evento di portata nazionale. E Maroni ha capovolto le posizioni.
Ieri sera al teatro Apollonio Bobo si è mostrato come il vero erede di Bossi, altro che Reguzzoni («potrei essere invidioso di uno di Busto Arsizio?», ha ironizzato) o Rosi Mauro («la Lega ha bisogno di un sindacato vero»), due dei «cerchiomagisti» più importanti.
Maroni più bossiano dei bossiani. Leghista della prima ora, amico del Senatùr dal 1979, co-protagonista di tutte le principali scelte politiche del Carroccio, in pista «quando molti non erano ancora nati». I lattanti sarebbero i suoi accusatori. Contro i quali rivolta le critiche: «Io sono uno che si impegna allo spasimo per il partito, la Lega è la mia casa. Ma chi si impegna viene calunniato. Vogliono cacciarmi? Forse dovrebbero essere cacciati loro».
Bossi è salito sul palco di Varese con lui. Mossa azzeccata anche la sua. Da un lato restituisce alla Lega un’immagine unitaria in vista della manifestazione di questa domenica a Milano, che qualche osservatore era giunto a mettere in dubbio viste le fortissime tensioni interne. Dall’altro toglie un po’ di palcoscenico a Maroni ridimensionandone l’esposizione mediatica.
Su Bobo piovono i riconoscimenti («nella Lega c’è chi parla troppo, e chi parla troppo finisce per parlare male»), e c’è anche un’apertura sulla questione che più sta a cuore a Maroni: i congressi. La conta degli iscritti, in modo che si possa pesare il consenso che i vari leader hanno tra i militanti, e le scelte non avvengano più per cooptazione o parentele. Ma Bossi tiene anche le distanze: disapprova l’idea di concentrarsi sul Nord lasciando perdere la presenza a Roma e sottolinea l’importanza di non farsi cogliere di sorpresa da modifiche della legge elettorale, cavallo di battaglia di Calderoli.
Se dunque Maroni era partito per combattere direttamente Bossi, ora si è rassegnato a prendersela con Reguzzoni e le altre seconde file, e prendere ancora tempo nella scalata verso la segreteria federale. «Come Bossi non ci sarà mai nessuno – sintetizza Dario Galli, presidente maroniano della provincia di Varese – ma dietro a lui tutti gli altri sono uguali. E per comandare ci si conta». Maroni è convinto di avere la base dalla sua parte, e la base ha l’ultima parola. Una rivoluzione in un partito, come la Lega, in cui finora ha prevalso il centralismo democratico di sovietica memoria.