Corriere della Sera di ieri mattina. Intervista di Roberto Formigoni che prende di mira la «solita Lega ribaltonista» puntando il dito contro Roberto Maroni. E intervista parallela di Maurizio Lupi, uno che non si può dire si collochi agli antipodi del governatore lombardo, che invece tende la mano al segretario del Carroccio. Nelle pagine del «Corrierone» si condensano tutto il travaglio del dopo-Formigoni (perché ormai è di questo che si tratta) e le incertezze del Pdl.
Roberto Formigoni sa di essere incamminato sul viale del tramonto ma vuole vendere cara la pelle. Non si può abbassare il sipario con fretta e vergogna su 17 anni di buon governo della Lombardia. Non si tratta soltanto di negoziare un posto nel prossimo Parlamento, risarcimento formale per il governatore uscente ormai svuotato di ambizioni. Formigoni rivendica i successi della sua amministrazione, quel «modello Lombardia» che soltanto la malafede può disconoscere. Nell’intervista, e nella conferenza stampa di ieri mattina al Pirellone, il governatore mette sul piatto questi 17 anni, i risultati, il suo pacchetto di voti.
D’altra parte, la strada è segnata e il Pdl deve pensare al dopo. Il che significa gestire i rapporti con la Lega. Premere sull’acceleratore potrebbe essere controproducente. Forzare i tempi delle elezioni lombarde, come vorrebbe l’indispettito e cocciuto Formigoni che non ci sta a prendere ordini dalle camicie verdi padane, si tradurrebbe in un bagno di sangue per un centrodestra che i sondaggi indicano addirittura sotto i grillini.
Dunque si prende tempo. Certo, Formigoni mostra frenesia, detta ultimatum, studia modifiche al sistema elettorale per cancellare quel «listino bloccato» che ha portato al Pirellone Nicole Minetti, per fare un nome. I consiglieri del Pdl rimettono il mandato nelle mani del capogruppo, cosa che hanno già fatto i loro colleghi del centrosinistra. Ma dimissioni vere non se ne vedono ancora perché il cammino verso il voto anticipato dev’essere progressivo.
Pdl e Lega guardano insomma ad aprile, al giorno delle elezioni politiche in cui andranno al voto anche una regione del Nord (Friuli Venezia Giulia) e due città importanti nel rapporto tra Pdl e Lega: Treviso dello «sceriffo» Giancarlo Gentilini e Brescia che mandò in regione Renzo «Trota» Bossi.
Se i due partiti si guardano in cagnesco a Roma perché divisi dall’appoggio a Monti, non altrettanto avviene in periferia, dove continuano a governare assieme in regioni, province e comuni, grandi e piccoli. Lo strappo romano potrebbe essere ricomposto a livello locale, perché sia Alfano sia Maroni sanno bene che l’uno senza i voti dell’altro non può nutrire grandi speranze di riconferma o di rilancio.
Il dopo-Formigoni è dunque il terreno sul quale azzurri e padani verificheranno la possibilità di un nuovo accordo. Il Pdl potrebbe cedere il Friuli Venezia Giulia a un leghista, dopo Piemonte e Veneto, pur di conservare la guida della Lombardia: già si fanno i nomi dell’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini e dell’ex ministro Mariastella Gelmini. Oppure potrebbe sacrificare la stessa Lombardia in cambio di un patto di ferro su Roma: un’offerta che il Carroccio non potrebbe rifiutare nell’ottica maroniana di diventare il primo partito del Nord. Formigoni avrà uno scranno in Senato e comincerà una nuova vita, da pensionato di lusso.