Bisogna dare atto a Roberto Formigoni di essere uscito con abilità dall’impasse della nuova giunta regionale lombarda. Il nome di Mario Melazzini come nuovo assessore alla Sanità, sia pure per pochi mesi, medico-paziente (è malato di Sla) e al tempo stesso esperto amministratore (era responsabile della programmazione sanitaria in regione), è un colpo d’ala che zittisce qualche polemica, anche se induce a chiedersi se c’era bisogno di aspettare gli scandali per rafforzare la squadra del governo regionale. Aggiungiamo il bocconiano Andrea Gilardoni alle Infrastrutture e il generale dei carabinieri Nazareno Giovannelli all’Urbanistica.
Andrea Gibelli è stato riconfermato come vicepresidente, unico leghista in giunta. Il rapporto con il Carroccio viene riconfermato, nonostante le schermaglie degli ultimi giorni: a nessuno conviene tirare troppo la corda. L’autorevolezza dei nomi lascerebbe intendere che la nuova giunta andrà avanti fino ad aprile, come chiedono Lega e Pdl, e non poche settimane fino a dicembre o al massimo gennaio, come invece pretende il governatore della Lombardia contro l’orientamento dei vertici dei partiti.
La data del voto lombardo rimane per il momento in sospeso, in attesa delle mosse di Silvio Berlusconi. A fine settimana verrà emessa la sentenza sul processo Mediaset per la compravendita di diritti televisivi. È una sentenza di primo grado e la prescrizione impedirà il giudizio di appello, ma un’eventuale condanna (i pm hanno chiesto per il Cavaliere la pena di tre anni e otto mesi) potrebbe pesare sulla scelta della candidatura. Più importante sarà il pronunciamento del tribunale di Milano nel processo Ruby.
Resta comunque la domanda di fondo: la Lombardia sarà usata dal Pdl per convincere la Lega a ricomporre l’alleanza sul piano nazionale? Ieri Gabriele Albertini, indicato da Formigoni come suo successore ideale, si è schierato contro l’ipotesi di cedere le armi al Carroccio, dicendo che anche Luca di Montezemolo – e quindi il fronte moderato – è sfavorevole a tale ipotesi caldeggiata invece da Berlusconi, Alfano e Maroni. I giornali di questi giorni si accaniscono a rimarcare il presunto allontanamento tra Cl e Formigoni, senza sottolineare a sufficienza la vera divaricazione che è quella tra Formigoni e i vertici del suo partito.
Nonostante le dichiarazioni di unità, a Berlusconi e Alfano non dispiacerebbe sacrificare il governatore lombardo in nome di un rinnovato patto con il Carroccio. L’alternativa è tentare l’aggancio con i centristi in nome del Ppe, ma ieri Casini è tornato a ripetere «mai con Berlusconi» rimandando la discussione a dopo il voto in Sicilia, dove l’Udc corre a fianco del Pd. L’asse con i centristi sarebbe, per Formigoni, la carta vincente per non cedere la sua poltrona alla Lega. Ma i margini sembrano al momento molto risicati.
In realtà il «mai con Berlusconi» non equivale a un «mai con il Pdl privo di Berlusconi». Le porte dell’Udc non sono mai né spalancate del tutto né completamente sprangate. Casini sta giocando una partita complicata, alleato con il Pd in Sicilia e contemporaneamente impegnato a costruire il «partito di Monti» a Roma che però il Pd non intende appoggiare, e dunque l’Udc ha bisogno di non interrompere il dialogo con il centrodestra.
Il «caso Lombardia» passa così in secondo piano rispetto al «caso Sicilia» dove si vota questo fine settimana. Sarà una prima tappa di chiarimento. La seconda si avrà quando Berlusconi deciderà che cosa fare, e in questo le sentenze delle toghe milanesi avranno un peso non trascurabile.