Sul calendario della politica la data è già segnata in rosso: domenica 2 dicembre, giorno dell’assai probabile ballottaggio nelle primarie del Partito democratico e del ritorno in campo, l’ennesimo, forse l’ultimo, di Silvio Berlusconi. Non è da escludere che sarà la data di scadenza del Pdl, oltre che del Pd: dal lunedì successivo i due partiti potrebbero essere andati a male come uno yogurt.

Il travaglio democratico ha almeno dei personaggi in competizione, idealità, voglia di combattere. Nel Pdl la scena è paragonabile alla Strada di Cormac McCarthy, un mondo di macerie, con pochi sopravvissuti che vagano in cerca di una meta sconosciuta. 

Il partito è in preda allo smarrimento. La grande finanza internazionale e gli errori del governo hanno portato alla caduta dell’esecutivo. Ora le indagini di varie procure stanno decimando le amministrazioni regionali del centrodestra: caduto il Lazio, in cattiva luce le spese del Piemonte, sotto tiro pesante il governatore della Lombardia. Le truppe si disperdono.

Giulio Tremonti, l’uomo che ha applicato al dicastero dell’Economia le scelte di Berlusconi, ha presentato un movimento tutto suo. Un gruppo di «neoconservatori», più consistente ma privo di leader di primo piano, ha dato vita al «Manifesto per il bene comune della Nazione», documento firmato da Quagliariello, Sacconi, Gasparri, Formigoni, Gelmini, Alemanno. Esso raccoglie varie anime e sensibilità del Pdl (le fondazioni Magna Carta e Liberamente, Italia protagonista, Rete Italia, Nuova Italia). I temi sono quelli della vita, della famiglia, della comunità; i valori della tradizione. Si parla di temi di fondo, eugenetica, federalismo fiscale, nuovo welfare.

Tutto attorno si muovono altri mondi, personaggi in cerca d’autore: Montezemolo, Giannino, la Marcegaglia, una galassia moderata che dispone di ampia visibilità mediatica ma di uno scarso pacchetto di voti. Angelino Alfano sembra avviato verso la fine della sua coraggiosa ma improduttiva stagione alla guida del Pdl.

È il quadro di uno scollamento tra i vertici e «il» vertice del partito, cioè tra Berlusconi e i quadri dirigenti del Pdl. Il Cavaliere medita da tempo una rivoluzione nel centrodestra, convinto sempre più (e il disastro della maggioranza alla regione Lazio ha dato il colpo definitivo) che il Pdl sia superato, incapace di recuperare il terreno e la credibilità perduta. Al tempo stesso, tra gli uomini che in questi ultimi anni più gli sono stati vicini l’ex premier non trova qualcuno cui affidare con fiducia il testimone.

Le opzioni sul tavolo sono diverse. Lo spacchettamento del partito tra diverse formazioni federate. Una nuova lista civica, forse chiamata Grande Italia, composta quasi interamente di facce nuove. Oppure il grande partito dei moderati, se si riuscisse nella difficile operazione di agganciare l’Udc. Lo stesso ex presidente del Consiglio è ancora dubbioso se correre per Palazzo Chigi oppure no, pur presentandosi come capolista alle politiche. Berlusconi resterà in prima linea anche se cederebbe volentieri il ruolo più visibile.

Due fattori lo frenano, comprensibilmente: l’esito del processo Ruby in corso a Milano, tutt’altro che scontato, e le incertezze sulla prossima legge elettorale. Le discussioni tra la maggioranza che regge Monti (e che dovrebbe decidere in che modo riformare il sistema elettorale) si fanno così estenuanti da rafforzare la previsione che si tornerà a votare con l’attuale legge ancora in vigore. L’ultima variabile riguarda le primarie del Pd, perché Renzi sarebbe in grado di calamitare consensi anche nel centrodestra. A meno che il Cav non si convinca a mettersi sulle orme della Lega che ormai le ha lanciato una sfida mortale schierandosi con decisione con gli industriali – grandi e piccoli – del Nord e dichiarando che vedrebbe con favore la promozione di Corrado Passera da ministro a premier. Passera: l’ex numero uno di Banca Intesa è un nome che potrebbe trovare il consenso anche di Berlusconi.