Onore al centrosinistra che ha insistito sul meccanismo delle primarie ed è riuscito a creare un evento attorno a un dato elettorale non del tutto convincente. Un evento soprattutto mediatico, con pieno rispetto dei tre milioni e mezzo di italiani che in una domenica di autunno inoltrato si sono messi in coda ai gazebo del «bene comune» e si preparano a incolonnarsi di nuovo domenica prossima. Rai e Sky hanno dato enorme risonanza a questo voto, rianimando un appuntamento intorpidito.



Innanzitutto l’affluenza. Il dato definitivo si avrà oggi, ma la pietra di paragone da non dimenticare sono i votanti alle precedenti primarie nazionali. Nell’ottobre 2009 (segreteria del Pd, corsa a tre fra Bersani, Franceschini e Marino) i votanti furono 3.100.000. Nell’ottobre 2007 (primo segretario del neonato Pd) erano stati 3.550.000. Il confronto più appropriato è però quello con le primarie dell’Unione che incoronarono Romano Prodi nell’ottobre 2005: anch’esse infatti, come le attuali, furono primarie di coalizione (Ds, Margherita, Rifondazione, Udeur, verdi, eccetera), non del solo Pd, e portarono ai gazebo 4.300.000 persone.



Il dato dei tre milioni e mezzo, se confermato, non regge questo confronto. Va comunque dato merito al centrosinistra di aver mobilitato una importante quota di elettorato, in un clima civile, dando prova di vitalità e capacità combattiva di dialettica interna. Tutto questo servirà anche da termine di confronto con il Pdl se da quelle parti riusciranno a partorire altre primarie.

Quanto ai risultati, si conferma il previsto ballottaggio tra Bersani e Renzi, che il segretario aveva cercato invano di esorcizzare alla vigilia facendo circolare la voce che avrebbe vinto al primo turno. Anche qui sarà importante valutare il dato finale. A metà scrutinio emergerebbe un 44-36 a favore di Bersani, ma Renzi è convinto di non essere così svantaggiato.



In questo secondo caso, ovviamente, per Renzi la vittoria al secondo turno di domenica prossima potrebbe non essere un miraggio. Ora la partita si gioca nella capacità di attrarre quel 20 per cento andato ai tre candidati minori: Vendola, Puppato, Tabacci. Il risultato di Vendola (12-14 per cento) è molto deludente. Aveva vinto due primarie nella sua Puglia, aveva piazzato zampate altrove sconfiggendo i candidati del Pd (come a Milano e Genova), ma oggi a sinistra il rinnovamento viene individuato nella faccia giovane e nuova di Renzi, non nelle «narrazioni» del leader di Sinistra e libertà. La sinistra massimalista è ormai al tramonto in Italia, resiste nelle piazze, in Val Susa e in certe fabbriche grazie alla Fiom, ma non è più in grado di attirare consenso elettorale.

Chiunque vincerà tra Bersani e Renzi, il Pd sarà un partito destinato a guardare più verso il centro e i moderati, non certo alla sinistra nostalgica. Il pacchetto di voti vendoliano è comunque determinante per il futuro candidato premier del centrosinistra, e non è scontato che i suffragi del governatore pugliese si trasferiscano pari pari a Bersani.

L’altro grande sconfitto è Tabacci, assessore milanese che ha incarnato la linea «montiana» nella coalizione. Il suo misero 1 per cento − o giù di lì − la dice lunga sulla non-voglia del centrosinistra di riconfermare il Bocconiano a Palazzo Chigi. Al governo andrà un politico, non un tecnico, senza se e senza ma. E se alle elezioni politiche non ottenesse una maggioranza chiara, e fosse necessario ripetere l’esperienza di un accordo con altre forze, il centrosinistra farà applicare il principio tedesco. Popolari e socialisti governarono assieme nella «grosse Koalition» guidati dal leader del partito di maggioranza relativa, cioè Angela Merkel. Da noi, Bersani o Renzi.