Un’ora di colloquio al Quirinale prima del concerto di Natale al Senato, in una fredda domenica di dicembre, probabilmente l’ultima con le due Camere nel pieno delle funzioni. Che cosa si saranno detti Giorgio Napolitano e Mario Monti? Nessuno ha rotto la consegna del silenzio. Il presidente del Consiglio ha augurato ai giornalisti un «Buon Natale» con accento sarcastico. Il capo dello Stato ha invece aggirato l’ostacolo: «Se ha fatto chiarezza lo deve dire lui e lo dirà lui». Dunque, Monti ha qualcosa da dire e lo espliciterà. È già una notizia.
I due traghettatori di quest’ultima fase della legislatura avranno per prima cosa definito le tappe di avvicinamento alle elezioni anticipate. La road map avrebbe in venerdì 21, la data apocalittica secondo il calendario Maya, la sua chiave. È il giorno in cui il premier incontra i giornalisti per la conferenza stampa di fine anno. Molto probabile che in quell’occasione svelerà le proprie intenzioni. Ma è altrettanto probabile che lo faccia dopo aver rassegnato le dimissioni e controfirmato il decreto di scioglimento delle Camere. Non ci sarà crisi formale, un voto di sfiducia o un inciampo clamoroso creato da qualche partito di maggioranza. Tutto scorrerà come è già deciso.
Se così fosse, l’Italia andrebbe a votare tra 45 e 70 giorni dopo il 21 dicembre: un intervallo in cui cade giustappunto il 17 febbraio, data ormai quasi certa per l’«election day» in cui fare coincidere le politiche con le regionali in Lombardia, Lazio e Molise. Avendo in mano la nuova composizione del Parlamento, Napolitano valuterà se dimettersi subito per accelerare la nomina del successore al Quirinale, oppure gestire in prima persona le consultazioni e l’incarico al nuovo premier.
Ma i due avranno parlato anche del futuro di Monti. E qui si apre una seconda partita. Monti ha deciso che non lascerà il campo. Non si ritirerà nell’ufficio di Palazzo Giustiniani, secondo l’indicazione (sgradita) data da Napolitano: un oracolo di Delfi pronto a fornire consulenze e opinioni ma di fatto esterno ai giochi. Che Monti non punti a fare solo il senatore a vita lo conferma anche uno dei ministri «tecnici» che più scalpita per trasformarsi in «politico», cioè Andrea Riccardi. Per il fondatore della Comunità di sant’Egidio il premier «resterà un punto di riferimento morale e politico».
Resta da stabilire come si attuerà la metamorfosi politica del premier tecnico. Nelle ultime ore ha preso corpo l’ipotesi di un vero e proprio «partito Monti» distinto dalle forze già organizzate e schierate, come fece nel 1996 Lamberto Dini con Rinnovamento italiano. Una cosa nuova, con suoi uomini e un suo programma, dietro il quale l’ex rettore della Bocconi, come il pifferaio magico dei fratelli Grimm, ambisce a trascinare la galassia dei centristi.
Monti avrà spiegato a Napolitano di essere preoccupato che il percorso di risanamento iniziato non vada completato. Dunque, il capo del governo non si fida di Pierluigi Bersani, candidato premier del centrosinistra e al momento vincitore più probabile. Ma non vuole nemmeno essere tirato per il loden dalla pletora di partiti e partitini moderati che ne invocano la discesa in campo: da Berlusconi a Casini, da Fini a Montezemolo, da Riccardi a Bonanni, da Alfano a Frattini, da Alemanno a Mario Mauro. Vuole essere lui a dettare le condizioni.
Dunque, non sarà Monti a piegarsi alle richieste dei partiti, ma i partiti a mettersi in riga dietro il professore. Che, vista la considerazione di cui è fatto oggetto, vuole avere mano libera nella stesura del programma e nella scelta degli uomini. La lista Monti terrà le distanze sia da Bersani sia da Berlusconi, ma anche dal Terzo polo. Chi fosse interessato dovrà farsi avanti e sottostare ai vincoli posti.
Resta da capire se questa operazione può essere messa in piedi in due mesi e guadagnarsi un suo spazio elettorale. Per questo le fonti vicine a Palazzo Chigi avvertono che tutte le ipotesi sono ancora sul tavolo. Ma la lista Monti è l’opzione su cui si sta lavorando più intensamente.