Proviene da quasi trent’anni di monarchia assoluta bossiana. I suoi «congressi» si sono celebrati ogni anno a metà giugno sul pratone di Pontida per acclamare il «caro leader» padano. Ma ora che ha deciso di sottoporsi alle trafile democratiche nell’avviare la fase del dopo-Bossi, la Lega Nord non ha abbandonato l’abitudine di utilizzare la base militante per ratificare decisioni assunte dai vertici.

Il Consiglio federale di ieri ha preso la scelta attesa da tempo. Il nuovo assetto del partito è stato proposto dallo stesso Senatùr: Roberto Maroni nuovo segretario federale, probabilmente affiancato da tre vice come espressione dei territori, mentre l’Umberto manterrà la poltrona di presidente. E lo statuto del partito verrà modificato in modo che possa essere presidente a vita.

È un modo per alleggerire le tensioni interne dopo il traumatico addio di Bossi alla segreteria e la levata di scudi contro il suo entourage. Ma è anche la scelta di arrivare uniti e compatti all’appuntamento di Assago, senza quell’incertezza sul ruolo del Senatùr che nelle ultime settimane sembrava voler restare in sella senza passare la mano.

Dunque il congresso leghista si farà, ma sarà un appuntamento svuotato di contenuto reale. I giochi sono stati fatti nei congressi regionali, che Maroni ha già vinto. Ai «barbari» sono andati Piemonte, Liguria e l’emergente Emilia. Ai primi di giugno l’ex ministro dell’Interno aggiungerà la Lombardia e il Veneto. Nella culla del Carroccio probabilmente si insedierà il bergamasco Giacomo Stucchi, più «presentabile» dell’altro maroniano Matteo Salvini.
Nel Veneto invece il nome è certo: quel Flavio Tosi trionfalmente rieletto sindaco di Verona che non avrà difficoltà ad arginare l’ala bossiana rappresentata dal segretario attuale Giampaolo Gobbo e dall’ex sindaco-sceriffo di Cittadella, Massimo Bitonci, vincitore del congresso di Padova.

Maroni avrà anche l’accortezza di bilanciare le segreterie con due presidenti «di garanzia», cioè Giancarlo Giorgetti in Lombardia (a scapito di Roberto Castelli, che paga l’eccessivo entusiasmo dimostrato davanti all’ipotesi che Bossi rimanesse) e Luca Zaia in Veneto.

Figure importanti del Carroccio che hanno sempre cercato di tenere un profilo di mediazione tra i big del partito. È nei congressi regionali (o nazionali, secondo la geo-linguistica leghista) che si è giocata la vera partita per la successione a Bossi.

Ora restano due incognite, anch’esse destinate a essere sciolte prima del congresso federale. La prima riguarda l’imprevedibilità dell’Umberto: non è detto che nel prossimo mese non possa ripensare all’assetto delineato ieri. La sua volubilità è proverbiale e potrebbe essere ulteriormente sollecitata dai fedelissimi.

L’altro motivo di incertezza è se passerà integralmente la linea di Maroni, tutta incentrata verso l’obiettivo di diventare il primo partito del Nord marcando una differenza profonda con «Roma ladrona» fino al punto di non concorrere alle elezioni politiche del 2013. 

L’abbandono del Parlamento romano appare un’opzione clamorosa, un segnale di sfiducia verso la politica centrale accompagnato dall’abbandono delle velleità di riforma federalista, per concentrarsi invece sull’amministrazione del territorio e la rifondazione del partito. Una sfida che potrebbe restituire un’anima a un partito in profonda crisi.