Primo maggio con la pioggia e soprattutto con il botto per il popolo leghista. Le camicie verdi si sono radunate a Zanica, località a sud di quella Bergamo che sembra diventato il nuovo epicentro del movimentismo padano.
Dopo Pasqua la fiera orobica era stata il teatro della turbolenta manifestazione in cui Roberto Maroni aveva dato il benservito a Renzo Bossi e soprattutto a Rosi Mauro. Ieri, festa dei lavoratori, doveva andare in scena la seconda puntata della rivoluzione maroniana. «Lega unita day», era stato battezzato il raduno che doveva consolidare il lavorio dell’ex ministro dell’Interno verso il congresso di fine giugno che nominerà il nuovo segretario federale.

Ma sul palco è salito anche Umberto Bossi e ha sparigliato le carte del suo aspirante erede. Perché prima di andarsene, ai giornalisti (e non dal microfono davanti a tutta la platea), il Senatùr ha annunciato che si ricandiderà segretario. «Per forza, per la gente», ha replicato alla domanda di un cronista prima del pranzo padano. «Penso che lo farò, se no la gente pensa che non siamo uniti», ha aggiunto. Più tardi, prima di ritornare a Gemonio, Bossi ha leggermente corretto il tiro, facendo balenare un maggiore margine di incertezza: «Mi ricandido se serve a mantenere unita la Lega».

L’uscita di Bossi è un vero fulmine nel nuvoloso cielo leghista. Che cosa dice il Senatùr? Innanzitutto, che l’unità del suo partito è ancora in grave pericolo. Le grandi pulizie maroniane non hanno ricompattato la Lega. La cacciata di alcuni personaggi, discussi ma non indagati (l’ultimo è il trevigiano Piergiorgio Stiffoni, ex tesoriere del gruppo leghista al Senato), avrà galvanizzato gran parte dei militanti, ma non è servita a scongiurare i rischi di scissione. Se Bossi ripete che la sua ricandidatura a sorpresa può servire «a mantenere unita la Lega», significa che il punto di rottura non è lontano.

Allo stesso tempo, la vecchia volpe di Gemonio mette in guardia Maroni, ormai convinto che la strada verso la segreteria sia tutta in discesa. È solo l’eccessiva sicurezza, infatti, che può giocare brutti scherzi come quello di lanciare una campagna di «obiezione fiscale» semplicemente inattuabile. Da giorni Maroni parla come Gandhi di disobbedienza civile. Ma boicottare l’Imu è impossibile, anche senza ricorrere ai modi brutali di Equitalia. Infatti lo Stato tratterrà dai trasferimenti agli enti locali il corrispettivo dell’Imu non versata. E i comuni dovranno mandare a Roma la prima rata calcolata in base all’aliquota del 4 per mille anche se stabiliscono una percentuale inferiore, salvo poi chiedere il rimborso.

Insomma, la campagna «boicottiamo l’Imu» lanciata da Maroni si sta rivelando un argomento da vigilia del voto, una «boutade» a uso elettorale, non una vera proposta politica. Al punto che i dettagli per mettere in pratica la disobbedienza fiscale non sono stati comunicati: saranno discussi a fine mese. Per Maroni è un mezzo passo falso che non aiuta a costruire la sua immagine di leader. E siccome Bobo ha già detto più volte che «se Bossi si ricandida sarò il primo a votarlo», ecco che il Senatùr si mette in mezzo a ostacolargli la conquista di via Bellerio. 

E come in un sospiro liberatorio, uno della vecchia guardia come Roberto Castelli si è affrettato a dichiarare: «Bossi ha detto quello che tutti i leghisti si aspettavano che dicesse: c’è bisogno della sua guida ancora per molto tempo». Cambiare tutto perché non cambi nulla: il «Gattopardo» ha di nuovo fatto scuola.